Avraham Ben Yitzhak è una leggenda nella storia della poesia ebraica, autore di undici liriche e alcuni frammenti scritti nei primi anni del Novecento. All’anagrafe era Abraham Sonne, nato in Galizia nel 1883. Famoso soltanto per undici componimenti e per l’assoluta ostilità verso la “letteratura”, a cui si sottraeva contrapponendo un inflessibile raccoglimento dentro al proprio statuto di poesia. Reticente e enigmatico, nessuna uscita pubblica che lo potesse sostenere nella quotidianità letteraria dell’epoca. Eppure la sua identità varcò l’ombra per la luce. Da giovane si fece notare durante gli scontri fra sionisti e territorialisti. Scriveva tenendo al centro l’ebraico biblico pur conoscendo perfettamente la lingua tedesca, una scelta di libertà che identifica immediatamente il personaggio dentro le vicende di quell’epoca. Il suo occhio poetico si posava sui segreti della natura, verso cui la poesia non poteva far altro che mostrarsi con il linguaggio più possibile concreto all’interno della forma elegiaca. Tutto questo era contrario alla cultura rabbinica allora in voga, ma la ribellione di Ben Yitzhak s’incrocia alla profondità visionaria degli autori prediletti: Trakl, Hölderlin, Rilke, e Hofmannsthal. La sua scrittura, ricca di competenza esistenziale e botanica, irradia quei fondamenti della realtà che attestarono la rinascita della poesia ebraica nel mondo. Elias Canetti gli dedica alcune pagine nell’autobiografia relativa al 1930, quando Ben Yitzhak aveva già smesso di scrivere versi. Ma a quel punto era Abraham Sonne a tenere desto l’interesse, con l’erudizione esposta su svariati argomenti, epica almeno quanto i famosissimi silenzi elargiti impressionando spettatori e intellettuali del calibro di Musil, Joyce, Schönberg.
Portatori d’acqua, casa editrice già distintasi con le eleganti proposte di Longhi e Bounoure (due libretti da non perdere per alcun motivo), pubblica un curatissimo e esaustivo volume dedicato a Ben Yitzhak, contenente le poesie e i frammenti. L’accompagnano i saggi conclusivi di Hannan Hever, curatore dell’edizione inglese di Collected Poems, e di Lea Goldberg, scrittrice israeliana, profonda conoscitrice e amica del poeta, scomparsa venti anni dopo di lui. Per la prima volta in Italia si può leggere l’intera opera con il testo ebraico a fronte, documentandoci sul suo valore letterario, come precorritrice del modernismo in quella lingua, e animata da un fascino esteso fino a certi temi del nostro Novecento lirico. Ci sono precetti messi in luce da alcune poetiche, come quella di Fortini, che sfidano il senso comune, ormai consunto, di un reale impressionistico. In Ben Yitzhak la natura diventa abbagliante, e fonte d’ispirazione determinata, scolpita. Resta il mistero, mai risolto, su cosa l’abbia indotto a interrompere la scrittura, al di là di ipotesi lungi dall’essere verificate: forse la natura profonda del suo ebraismo e l’impegno politico, la distanza caratteriale da tutto ciò che riguarda la “letteratura”, l’intransigente silenzio sull’altrui volontà di accostarsi alla sua più che parca opera. L’uomo Sonne sembrava conoscere una svariata mole di materie, sprofondava tutto il suo pensiero nelle loro leggi, ma teneva la poesia dentro di sé, senza scriverla: emblematica la sua presenza, taciturna e solitaria, nei Caffè viennesi. Una conversazione muta, spinta oltre misura, lasciando tutti di stucco. Ma le undici poesie hanno continuato a viaggiare nel mondo e nel tempo, hanno per così dire costruito il loro peso nella storia della letteratura mondiale.
Nel 1938 se ne andò dall’Austria per vivere nel costituente stato d’Israele. Il saggio di Lea Goldberg consegna al lettore un ritratto del poeta di grande levatura, accentua il trasporto verso le vicende del protagonista e verso coloro che lui incontrò nel corso della vita, caratteri spirituali di prima grandezza, scrittori che hanno modificato la corrente letteraria mondiale. I racconti orali del poeta, su persone famose o ancor più sconosciute, erano belli da ascoltare, ma di certo l’interesse politico verso la situazione ebraica occupava gran parte delle sue “meditazioni”. Interi mondi dentro di lui, di natura e di genti. Ma la poesia, scrive Lea Goldberg, non lo abbandonò mai, restò una visione fissata negli occhi e mai più sulla pagina scritta. In certi momenti la socialità veniva meno: Ben Yitzhak uomo inaccessibile per chiunque, ma non a chi gli donava semplicità e sguardo limpido. Non mancò di dire la sua sull’Ulisse di Joyce: “un libro di teologia cattolica. Dovrebbe risultare particolarmente comprensibile a noi ebrei. Joyce non possiede uno stile soltanto, li possiede tutti”. Sono molti i ricordi e gli aneddoti nello scritto di Lea Goldberg, rivelatore a ogni pagina di un’amicizia forte e concordante. Ben Yitzhak raccontava della Vienna nazista, era conscio di quel che sarebbe accaduto, presagendo un futuro terribile metteva in guardia quante più persone poteva. La parola Krieg, guerra, era pronunciata come incarnazione piena dell’orrore.
Questo libro ci consegna l’opera, l’immagine e la storia documentata di un grande poeta, la cui influenza europea dovrebbe essere studiata da vecchie e nuove generazioni. Unicamente undici poesie (Beati coloro che seminano e non mietono è un verso dell’ultima poesia pubblicata) ma la “voce incarnata di una biblioteca”, scrisse Canetti nell’autobiografia.