Il tema della lotta armata che insanguinò il Paese negli anni Settanta del secolo scorso è stato di rado rappresentato in maniera convincente nella narrativa che ha provato a misurarvisi. Troppo complesse le dinamiche che ne determinarono gli sviluppi, troppo profonde le lacerazioni che ha prodotto, ancora aperte le ferite per poterlo affrontare con il dovuto distacco. O forse è mancato un autentico talento in grado di forgiare quella rovente materia in forma letteraria. Ci hanno provato due scrittori esordienti, che ne hanno una conoscenza di prima mano: Massimo Battisaldo e Paolo Margini, con il loro Decennio rosso, ripubblicato dall’editore Rave Up Books (la prima edizione è del 2016). Nativo di Luino – città che diede i natali a Vittorio Sereni e Piero Chiara –, Battisaldo militò nelle Formazioni comuniste combattenti ed ha scontato dieci anni di carcere (vi entrò a 23 anni nel 1979); Margini, napoletano, fu membro della formazione Prima Linea, ed in prigione è rimasto un lustro, dal 1980.
Ora, conoscere di prima mano la materia del racconto non è in sé sufficiente garanzia per un risultato artisticamente compiuto. Decennio rosso vi si prova configurandosi come un ibrido letterario, incrociando le risorse della memorialistica e della riflessione storiografica, e ricorrendo a un parco uso degli stratagemmi narrativi. Impresa ardua, oggi, farsi un quadro verosimile di quel periodo. Ne dà una qualche contezza Davide Steccanella nell’introduzione, riportando alcune statistiche: alla fine del 1979 erano 269 le sigle armate operanti, 36.000 i cittadini inquisiti e 6.000 i condannati, 7.866 gli attentati compiuti di cui 4.290 ai danni di persone. In questo drammatico contesto prende corpo il racconto, diviso in tre parti e scandito da eventi storici, che si apre nel settembre del 1974 e si chiude agli inizi degli anni Ottanta.
Con prosa minimalista venata di ironia (e di autoironia: caso ben raro in questo genere), scarna di figure retoriche e descrizioni aggettivali, densa di verbi d’azione, con dialoghi icastici e descrizioni lapidarie, il testo fa assurgere a protagonista un’epoca, la sua temperie unica, le dinamiche storiche e sociologiche che la foggiarono, una lunga stagione che finì per travolgere molti di quelli che si trovarono a viverla scegliendo di farsi parte attiva. Singolare che i protagonisti siano due figure di finzione, Sofia ed Elio, certo trasfigurazioni e ibridazioni di individui realmente esistiti: in questo e altri espedienti letterari riposa la parte più precipuamente romanzesca. Sono loro i caratteri più riusciti, credibili nelle psicologie e nell’agire, che riescono a legare con discreto pathos il lettore alle loro drammatiche avventure. Ma a ben vedere gli autori mettono in scena un racconto corale, a stagliarsi dalle dense pagine è come si diceva un determinato periodo storico, un percorso sanguinoso che migliaia di individui e un’intera nazione hanno attraversato come ad occhi chiusi, in una corsa disperata senza una via d’uscita.
Tra i meriti del libro c’è l’aver restituito almeno parzialmente – poiché quel decennio fu non soltanto “rosso”, ma anche “nero” – una profondità storica e umana agli anni Settanta, troppo spesso confinati e compressi nella parola “terrorismo”, nella locuzione “anni di piombo”. Le ragazze e i ragazzi che animano queste pagine escono dall’unidimensionalità in cui li ha confinati la cronaca e la storiografia: hanno una famiglia e un lavoro, s’innamorano, stringono amicizie, discutono, si confidano le proprie fragilità, vanno al cinema (i film di quegli anni punteggiano il racconto), frequentano bar e osterie, assistono a eventi musicali (Umbria Jazz a Perugia, il Festival del proletariato giovanile organizzato da Re Nudo al Parco Lambro di Milano), vanno in vacanza, sono impegnati in opere di sensibilizzazione e in azioni dimostrative, si danno alla clandestinità e combattono in modi via via più violenti contro un sistema che ritengono ingiusto e liberticida: donne e uomini in carne e ossa, non figure indecifrabili con le armi spianate, mostri assetati di sangue. Persone tratteggiate nella loro diversità ontologica: il riflessivo, l’aggressivo, l’ideologo, l’intellettuale, il sognatore, il pragmatico. Individui affamati di riscatto sociale e di giustizia non soltanto per sé ma per le masse di diseredati e sfruttati, colti in ambienti e contesti ben precisi, sociologicamente determinati: Milano e l’agghiacciante periferia industriale di Sesto San Giovanni, Luino e le Alpi, l’Università di Roma, un campo di addestramento dell’ETA al confine franco-spagnolo, Lourdes, le supercarceri. Spina dorsale del racconto è la fattualità storica scandita dagli eventi di cui vengono segnalate le cronologie: i cortei, le manifestazioni, le azioni intimidatorie, gli agguati, gli attentati, le evasioni riuscite e soffocate, le rivolte carcerarie, l’ineludibile passaggio del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, di cui ben si rende il caos e il disorientamento, lo sbriciolarsi del fronte di lotta e la sua degenerazione. Di particolare interesse le descrizioni di vita e prassi carceraria, alcuni episodi che vi ebbero luogo su cui le cronache dell’epoca tacquero, come le brutali e ripetute sevizie a cui molti prigionieri furono sottoposti da parte delle forze di polizia, dunque del “democratico” Stato “di diritto”. Ma v’è spazio anche per la commedia, con due personaggi, Romolo e Indro, che rivestono la funzione di comic relief nelle drammatiche vicende rappresentate. Coppia completa in sé, dividono tra scaramucce ogni cosa: casa, donne, ideali, lavoro.
Difficile non innamorarsi di Sofia, forse il personaggio più riuscito, sorta di grillo parlante, di coscienza critica e lucido controcanto alle fumosità ideologiche, donna dotata di specchiata moralità, sano buon senso e arguta ironia, portatrice di istanze femministe assenti nei suoi compagni. È tramite lei che il racconto acquisisce una prospettiva storica, e non a caso una volta compresa la sconfitta, il termine della parabola della lotta intrapresa, sceglierà di espiare le sue colpe – peraltro non gravi – consegnandosi a quello Stato che aveva combattuto, con una scelta di vita e d’amore e non di morte, incarnando in sé il tema della redenzione. È a lei che è affidata la spietata autoanalisi collettiva: “Alla fine non siamo più stati in grado di farci comprendere da qualcuno. E se nessuno più ti capisce, allora diventiamo criminali puri, anche per quelli che in politica fino all’altro ieri ci erano vicini”.
Alle sue parole fanno eco le riflessioni che adeguatamente chiudono il racconto, rendendo questo testo anche una particolare sorta di romanzo di formazione. Sono affidate a Rick, uno dei personaggi che compaiono sin dalle prime pagine, un discorso fatto alla Corte che lo sta giudicando e che, come ci informa l’introduzione, riecheggia quello di Enrico Galmozzi al processo contro Prima Linea: un consuntivo morale, ideologico e politico, privato e pubblico, del decennio appena trascorso, una lucida analisi dei sogni e degli ideali che mossero un’intera generazione, delle dinamiche storiche e sociologiche che produssero la lotta armata. Da questi ragionamenti intensi, profondi e sinceri, non articolati per chiedere difficili perdoni né per porsi come autoassoluzioni, ma quale onesto tentativo di spiegazione e di autointerrogazione quasi socratica, emerge una figura centrale: la giustizia, l’insaziabile fame di essa che scosse migliaia di giovani e meno giovani che scelsero di combattere con le armi per realizzarla, finendo così per creare un altro tipo di ingiustizia. Da quelle riflessioni, dalle vicende qui narrate sgorga una considerazione amara, di natura storica e morale: i protagonisti di questo libro, trasfigurazione letteraria di individui realmente esistiti, al termine del loro percorso di lotta allo Stato la giustizia l’hanno affrontata, pagando per gli sbagli e le colpe che le leggi vigenti, la società e in taluni casi la propria coscienza hanno loro attribuito. Ma chi ha tirato le fila di quel terribile decennio, chi, detenendo un potere sconfinato, ha agito nell’ombra manovrando come burattini i vari attori: hanno mai pagato, costoro, per il sangue versato?
In definitiva, questo “romanzo” rende un non lieve contributo alla comprensione di un momento della storia nazionale con cui forse non abbiamo ancora fatto del tutto i conti, e lo fa scardinando le griglie interpretative prefabbricate, gli schemi semplicistici che ne impediscono una corretta ed equilibrata ricostruzione. Come spesso avviene, è proprio la narrativa a indicarci la via per una più giusta messa a fuoco del passato, e dunque del presente. Chi non si accontenti dei superficiali e stereotipati racconti di quel decennio offerti da un’ampia e diffusa pubblicistica e ne voglia sondare le profondità, chi sia interessato ad indagare i motivi per cui migliaia di giovani decisero di armarsi e dichiarare guerra ad uno Stato che si rappresentava come democratico e fondato sulla giustizia, potrà forse trovare in questo libro qualche risposta.