Bartleby il democristiano

Giulio Andreotti, Il buono cattivo, La nave di Teseo, pp. 243, euro 17,00 stampa, euro 9,99 epub

Tutti conoscono Giulio Andreotti, detto Belzebù (copyright: Bettino Craxi), la sua straordinaria carriera politica e il suo incredibile cursus honorum. Ma pochi “lettori forti” conoscono l’Andreotti scrittore, che in questa recente pubblicazione, intitolata Il buono cattivo, romanzo rimasto inedito per più di quarant’anni e riscoperto di recente dalla figlia Serena tra le carte del padre, appare anche come personaggio-narratore, come al solito ironico e lieve, capace di uno sguardo sulla realtà caratterizzato dalla consueta ironia e dal consueto cinismo (con qualche caduta di stile: tutti ricordano la sua battuta infelice sull’Avvocato Giorgio Ambrosoli).

Ma a differenza di altri politici che si improvvisano romanzieri, utilizzando i loro romanzi per giustificarsi di fronte alla Storia, per spiegare le loro sconfitte, e che oltretutto non sanno neanche scrivere (vedi la recente stroncatura del romanzo di Walter Veltroni da parte di Christian Raimo), nel caso di Andreotti, pure in presenza di un linguaggio che appariva desueto già all’epoca (ad esempio di rimpetto, scritto staccato, che non si usa più neanche come parola unica), la scrittura di Andreotti scorre pura e lieve come l’acqua minerale di Evian che ispira il titolo di uno di questi bozzetti.

Al di là del giudizio storico su Andreotti, al di là dei numerosi misfatti che, a torto o a ragione, gli vengono attribuiti (Golpe Borghese, scandalo dei fascicoli del SIFAR, occultamento del Memoriale Moro, soprattutto della parte che lo riguardava, morte di Sindona per un caffè corretto al cianuro, delitto Dalla Chiesa, delitto Ambrosoli) e alcune vicende che i vecchi andreottiani rivendicano ancora come un merito, ad esempio la decisione di rivelare l’esistenza di Gladio (esistenza che però stava già venendo alla luce grazie all’indagine del Giudice Casson sulla strage di Peteano), bisogna ammettere che nel caso di questo romanzo, Andreotti dimostra una levità di tono che rimane sempre in equilibrio tra lo spietato cinismo e l’ironia quasi sempre bonaria, caratteristici del personaggio.

Il buono cattivo è suddiviso in due parti, la prima che descrive la “cornice” in cui si inseriscono i racconti – una sorta di Decameron contemporaneo – cioè gli incontri serali estivi di alcuni austeri personaggi, per lo più notabili dell’Italia dell’epoca, che soggiornano in una pensione a Monte San Rocco sul Lago di Como, alla presenza della Signora Falconi, la proprietaria, dell’avvocato della Sacra Rota Pier Paolo Santulo, e del narratore, in cui si riconosce facilmente il Nostro, per un atteggiamento in generale svagato e ironico nei confronti dell’Italia e dei suoi ben noti difetti (nei quali lo stesso Andreotti ha sguazzato per anni), per la consapevolezza che spesso si può accedere alle leve del potere tramite oscuri uffici apparentemente inutili oppure enti di cui pochi conoscono l’esistenza (chi si ricorda dell’INAM o dell’ICAP?), e una serie di interessi in comune con l’Andreotti in carne ed ossa: le corse dei cavalli, la Marina Pontificia, i francobolli dello Stato Vaticano, ecc.

Eppure neanche questo libro è completamente distaccato dalla politica, così come non lo sono questi suoi hobby e questi suoi interessi così particolari. Infatti Il buono cattivo nasce da una riflessione che Andreotti aveva avviato fin dall’inizio degli anni ’70 sul divorzio, ovviamente dal punto di vista di un cattolico tradizionalista, e che già aveva prodotto un volumetto pubblicato nel 1971, I minibigami, anch’esso ambientato nella pensione di Monte San Rocco. Leggendo queste pagine trova conferma ciò che Giulio Andreotti aveva affermato in varie interviste successive alla sconfitta del Maggio 1974 al Referendum sul Divorzio, che come è noto fu una battaglia sulla quale Fanfani si incaponì e che determinò per lui una cocente sconfitta (“Il tappo è saltato”, recitava una famosa vignetta di Forattini, che ritraeva Fanfani mentre veniva sparato in aria da una bottiglia di champagne con sopra scritto NO).

Con molta saggezza e lungimiranza, con il fiuto politico che tutti, amici e nemici, gli riconoscono, Andreotti intuì che lo scontro frontale non giovava alla causa, che si rischiava di perdere il Referendum, ed espresse alcuni sui dubbi in materia di annullamento di matrimoni da parte della Sacra Rota, argomento che già aveva affrontato ne I minibigami, e che ritorna in questo suo romanzo del 1973-74, che per ovvie ragioni Andreotti non ritenne opportuno pubblicare (ormai la battaglia era persa…), così come tanti altri documenti scottanti che ha lasciato per decenni nei cassetti.

Tra questi bozzetti (“El Greco”) troviamo ad esempio il racconto dell’attentato di via Rasella dal punto di vista di un informatore degli americani, racconto che non sfigurerebbe in un’antologia della Letteratura Italiana – accanto a scrittori certamente molto più grandi del Nostro – un’antologia che volesse dare voce non solo all’intellighenzia di sinistra allora predominante in campo letterario, ma anche a quell’Italia della gente semplice e povera, e della sua capitale amorale (copyright: Andreotti), di quella Roma ministeriale e papalina di cui il Divo Giulio era certamente il campione indiscusso.

L’Andreotti che emerge da questi scritti appare come una sorta di personaggio allo stesso tempo remissivo e reticente, una controfigura di Bartleby lo scrivano, il celebre personaggio di un altrettanto celebre racconto di Herman Melville. Ecco, Andreotti è una sorta di Bartleby al contrario, un Bartleby di successo. Di fronte ad una richiesta specifica del suo datore di lavoro, il personaggio di Melville infatti oppone un rifiuto assoluto, pur se espresso in tono mite, chiudendosi sempre di più in sé stesso e continuando a ripetere sempre la solita formula: I would prefer not to (“Preferirei di no”). Andreotti invece – che secondo noi in questo romanzo si rivela essere non uno scrivano, ma uno scrittore a tutti gli effetti – appare come un personaggio che, al contrario, prende sempre la vita con una certa ironia e un certo cinico fatalismo, ed ogni volta risponde: “Preferirei di sì”.

Il protagonista di Il buono cattivo accetta dunque la vita e la realtà italiana in tutte le sue sfumature, accoglie di buon grado ciò che la vita gli offre, con quella che oggigiorno si chiamerebbe serendipity, così come il politico Andreotti ha sempre accettato i vari incarichi che gli sono stati proposti, da De Gasperi a Berlusconi. Perché il segreto della politica, e in particolare della politica democristiana, è proprio questo: il politico navigato non farà mai capire che aspira a un dato incarico, ma farà in modo che, a conclusione di lunghe ed estenuanti trattative, durante le quali i suoi avversari si “bruceranno” in reciproche accuse e delegittimazioni, siano gli altri a proporglielo e a quel punto egli risponderà: “Preferirei di sì”. E’ questo il segreto che si cela dietro il grande successo nella carriera politica di Andreotti, questo suo atteggiamento apparentemente remissivo e accomodante, ma in realtà spregiudicato e in ultima analisi vincente. Come scrive egli stesso nella citazione che figura sulla quarta di copertina del libro: “Uno dei miei difetti è la ritrosia a dir di no. Trenta volte su cento me ne pento ma, in omaggio alle altre settanta, continuo nelle mie abitudini remissive.”

In realtà è stato il suo più grande pregio, il segreto del suo successo e della sua lunghissima carriera politica. L’unica occasione forse in cui Andreotti ha detto un No netto e inappellabile, come Bartleby, è stato nel 1978 quando qualcuno, anche all’interno del suo stesso Partito, propose di intavolare una trattativa con le Brigate Rosse per salvare la vita di Aldo Moro, che Andreotti conosceva fin dai tempi della FUCI. In quei drammatici giorni, Andreotti continuò a ripetere “Preferirei di no”. E quel mite ma fermo No ha cambiato la Storia del nostro paese.

A parte questa parentesi di intransigenza, per tutto il resto della sua carriera e della sua vita pubblica, Andreotti ha continuato nelle sue “abitudini remissive”. Eppure giunti alla fine del libro, leggendo quest’ultima citazione, rimane il dubbio che se l’uomo politico Andreotti avesse detto più spesso di no, invece di essere così accomodante con tutti, la Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi sarebbe stata molto diversa.

 

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