Si fa presto a dire graphic novel. Nell’ultimo decennio, infatti, l’ambigua definizione è stata assegnata in maniera quantomeno arbitraria, come marchio di qualità in grado di sopraelevare questa o quell’opera dall’oceano informe del mercato fumettistico (da guardare con sospetto e, possibilmente, con sufficienza), come passe-partout per dare cittadinanza ad alcuni, selezionatissimi lavori, sui rispettabili scaffali delle librerie. Le cose, come solitamente accade, hanno preso però tutt’altro corso, e non sono poche oggi le librerie che sopravvivono proprio grazie ai fumetti. Al di là di ciò, tuttavia, l’equivoco sull’uso dell’etichetta inglese si dimostra duro a morire, e sono molti ancora a intendere la dicitura graphic novel come sinonimo chic di “fumetto”, piuttosto che, più correttamente, come una specifica forma e misura di quest’ultimo, rapportabile in letteratura alla forma, per l’appunto, del romanzo.
Che Mostri di Barry Windsor-Smith rappresenti, più di qualsiasi altra produzione degli ultimi anni, un vero e proprio romanzo a fumetti, traspare invece già dalla materialità, dalla fisicità stessa del bel volume che Mondadori ha portato lo scorso ottobre in Italia, un tomo di quasi quattrocento pagine raccolte in una robusta copertina rigida, che riproduce perfettamente nell’aspetto l’originale americano. Ma ci si rende conto, più che in tanti altri fumetti, dell’anima da graphic novel dell’ultimo lavoro di Windsor-Smith soprattutto immergendosi nel contenuto delle sue tavole, nella sua storia complessa e stratificata, densa di livelli di lettura, perdendosi nelle piccole vignette che si affastellano cariche di dettagli grafici, di segni tracciati con maniacale dedizione, nella sua strabordante componente testuale che, in perfetto dialogo con i disegni, traccia un mosaico narrativo di ampio respiro, sfaccettato e profondo, eppure allo stesso tempo sempre facilmente accessibile.
Le premesse della narrazione mettono, del resto, subito il lettore a suo agio, calandolo in una vicenda a tal punto convenzionale, nel suo riutilizzo di situazioni e stereotipi propri della Golden Age del fumetto statunitense, da risultare sotto molti aspetti familiare, e per questo, almeno ad un livello superficiale, perfettamente decifrabile: è il 1964 quando il giovane Bobby Bailey, un povero diavolo segnato fisicamente e psicologicamente da un difficile passato familiare, viene selezionato dall’esercito americano per far parte del misterioso Programma Prometheus, un folle progetto scientifico finalizzato alla creazione di super-soldati, diretto – inutile dirlo – da un ex scienziato nazista. Del tutto prevedibile è anche l’esito fallimentare dell’esperimento, che trasforma il ragazzo in un mostro deforme, più simile al grottesco Hulk che al biondo e aitante Capitan America, per citare le due principali fonti di ispirazione della storia. Come avventura dedicata al gigante verde creato da Stan Lee e Jack Kirby era nato, d’altronde, il lavoro di Windsor-Smith (autore formatosi proprio in seno alla Marvel, con all’attivo più di trent’anni di servizio come disegnatore nelle principali testate della “casa delle idee”), eppure l’ossatura classica, persino banale della storia si rivela, dopo poche pagine, un mero pretesto per intraprendere, scardinato l’impianto su cui simili fumetti si fondano, un’impietosa analisi sulle storture e sulle contraddizioni della società americana del secolo scorso, sulla follia della sua politica militarista, della sua inclinazione razzista, biecamente reazionaria, e in generale sui lati più oscuri dell’animo umano.
Per quanto Bobby Bailey, infatti, presenti un aspetto ributtante, orrendamente deforme, sono ben altri i mostri a cui il titolo allude: figure come il dottor Friedrich, sadico e immorale ideatore del Programma Prometheus, il maggiore Roth, suo complice, o come Tom Bailey, padre degenere di Bobby, segnato per sempre dalla violenza della guerra, paradigmi di un’aberrazione meno evidente, forse, ma non per questo meno disumanizzante. A questi si oppongono tutta una serie di personaggi che vedono in varia forma la propria vicenda personale intrecciarsi con quella del povero Bobby, narratori improvvisati di quello che si presenta come un racconto corale di ampio respiro, sviluppato su più punti di vista e diverse linee temporali, in modo non troppo dissimile a quanto è possibile osservare, ad esempio, nei migliori romanzi di Stephen King, autore a cui il fumetto (anche con rimandi diretti) fa più volte riferimento nel suo continuo giocare con il piano della realtà e quello del soprannaturale. Tale pluralità di voci e prospettive consente alla narrazione, proprio come nei lavori dello scrittore del Maine, di attraversare registri e generi molto diversi tra loro, passando senza soluzione di continuità dalle tinte livide e grottesche dell’horror a quelle intime e malinconiche del dramma familiare, dal ritmo incalzante del thriller a quello più riflessivo del racconto metafisico.
Una simile ricchezza narrativa è sorretta magistralmente dai disegni di un Windsor-Smith in stato di grazia, perfettamente a suo agio con la bicromia del bianco e nero, attraverso cui trova perfetta rappresentazione visiva la dolente profondità delle vicende umane narrate. Mentre il tratto sottile, accurato, portato dei quasi cinquant’anni di esperienza dell’autore, restituisce con ricchezza di dettagli e precisione mimetica i volti e le espressioni dei personaggi, così come il mondo in cui questi agiscono, l’uso sapiente della china traduce con straordinaria nitidezza grafica il contrasto di luci e ombre attorno a cui la narrazione si dispiega.
Opera che ha visto una gestazione ultratrentennale, Mostri si presenta, in tal senso, come il compimento di un intero percorso artistico, riuscita incarnazione a fumetti di quel “Grande Romanzo Americano” che molti scrittori hanno inutilmente provato a inseguire, capace di ripensare motivi e stilemi di una produzione più commerciale per portare avanti, oltre ad una caustica critica alla società statunitense passata e presente, una serrata riflessione sulle stesse possibilità espressive del medium e sulle sue responsabilità in quanto forma artistica.