Barbara Balzerani. Figlie e padri

Barbara Balzerani, Lettera a mio padre, introduzione di Vincenzo Morvillo, Derive Approdi, pp. 92, euro 12,00 stampa

Nel 1819 Giacomo Leopardi, prima di un tentativo non riuscito di allontanarsi da casa e da Recanati, scrive al padre una lettera in cui rivendica una vita secondo i propri intendimenti e desideri. Cosa che comunque gli riuscirà – seppure faticosamente – di fare.

Cento anni dopo, nel 1919, sarà Franz Kafka a scrivere una delle più celebri lettere al padre di tutti i tempi, atto d’accusa terribile, in cui lo scrittore pur si crogiola nella propria impossibilità e impotenza. La lettera non verrà mai recapitata al padre, segno anche questo di una estrema sudditanza del figlio.

Passano ancora 100 anni ed è Barbara Balzerani a scrivere una lettera postuma al proprio padre, con il quale evidentemente i conti non sono ancora chiusi.

Tre vite che non hanno niente in comune e un parallelo che forse può suonare sconveniente vista la grandezza universale e definitiva riconosciuta ai primi due e l’inscrizione della terza nella damnatio memoriae delle rivoluzioni sconfitte del Novecento. Figlia di quel secolo, oltre che di suo padre.  Lo è stata perché ha avuto la ventura di essere ragazza nello scorcio degli anni Settanta, quando milioni di proletari nel mondo e in Italia hanno pensato e cercato di farla, la rivoluzione, in molti posti anche vincendo, in ogni caso strappando diritti e potere; lo è stata perché esponente di primo piano di una di quelle esperienze politiche e combattenti (le Brigate Rosse) che possono essere comprese solo se lette e collocate dentro quel paradigma rivoluzionario novecentesco e dentro l’enorme tumulto operaio che ha attraversato l’Italia in quel periodo. Quella della loro sconfitta è un’altra storia.

Se su questo versante i conti sono ancora aperti, anche quelli con i propri padri non finiscono mai. Almeno così a me sembra, perché penso che Barbara Balzerani abbia scritto questa Lettera a mio padre per un’intima necessità di chiarire a se stessa la sua figura e i legami che li univano e li dividevano e non già solo per esprimere il proprio disappunto per un mondo che non smette di alimentare le ragioni di ingiustizia che a suo tempo avevano suscitato la sua ribellione che continua a persistere sotto altre forme.

La prova? Come per i due illustri predecessori, la lettera.

Allora, piuttosto che soffermarmi sul fatto che, pur consapevole della crisi ormai irreversibile del vecchio paradigma rivoluzionario, non smetta di constatare “che la resistenza non è mai cessata, [anzi] ha trovato nuove strade da percorrere” (in Chapas, a Riace, in Val di Susa, a Rojava, in Bretagna con le lotte della Zad, i gilet gialli, …), mi chiedo perché senta il bisogno, con un po’ di anni in più sulle spalle, di scrivere al proprio padre e di battagliarci ancora.

Certo, in primo luogo per spiegare ancora una volta – a noi ma anche al padre che mai ha voluto o potuto capire – “quanto sia valsa la pena di tentare la sorte a fianco dei non previsti”, vale a dire di quegli operai arrivati tra gli anni Sessanta e Settanta dal sud nelle fabbriche del nord Italia, indisponibili allo sfruttamento e a regalare la propria vita e il proprio tempo ai padroni.

In secondo luogo perché Barbara Balzerani riconosce al padre e a sé stessa di essere stati – allora – partecipi di una doppia ignoranza: il padre, sicuro che la centralità del lavoro non avrebbe mai concluso il suo ciclo e la figlia rivoluzionaria, di poter piegare la “mortifera razionalità del progresso produttivo a favore di un sistema sociale in grado di abolire lo stato di cose presenti”.

Ora che ambedue sono stati smentiti, ora che la riproduzione stessa del pianeta è in pericolo e che il lavoro – insieme a un enorme patrimonio di pratiche, conoscenze e memorie – è stato interamente incorporato nelle macchine in “una furia omicida (…) che forza il tempo dell’umano a velocità incontrollata”, Barbara pensa che il padre potrebbe finalmente comprendere, esserle accanto e “complice” con il suo sapere e le sue conoscenze “per bloccare il funzionamento e inventare un modo diverso di stare al mondo” come si provano a fare le “tante periferie dei tanti sud” rimettendo al centro i valori d’uso e la riproduzione della vita.

E fin qui siamo dalle parti di Benjamin e della sua concezione della storia. Lo riconoscono sia Barbara Balzerani che Vincezo Morvillo nella sua introduzione quando scrive che “Barbara, come Benjamin, ci dice di spezzare la linearità fisica del Tempo. Di sparare agli orologi. Di interrompere l’accumulo progressivo di futuro tramutatosi in accumulo sviluppista di produzione al presente”. Ma anche dalla parte, mi pare, di una lunghissima tradizione “anarchica” a cui le parole mutuo soccorso, economia comunitaria, comunismo comunitario, autogoverno, autogestione, inevitabilmente rimandano.

Eppure mi chiedo se con questo testo di Balzerani non si rischi di incappare in una semplificazione del concetto di “lavoro” ed “esperienza” e del loro rapporto con il “mondo” che ci butta di nuovo in errore come, a suo tempo, ha deragliato la locomotiva della rivoluzione. Perché quel lavoro e quel saper fare con le mani, quelle “esperienze di difesa e di recupero di un sapere che noi abbiamo perduto sull’essenza degli elementi fondanti la vita come l’acqua, l’aria, la terra, i legami fra gli esseri viventi”, sembrano rimandare oggi a qualcosa di primigenio e puro. Allo stesso modo, pensare la tecnica, il sapere e il lavoro come una semplice estensione del corpo umano, consegna quest’ultimo a una supposta “naturalità” da difendere che non solo è perdente ma che vogliamo perdere. Sto pensando ovviamente a quel filone del pensiero femminista del postumano – per tutte, la Braidotti – che ci invita a riflettere seriamente sul cambiamento oggi in atto nella relazione tra l’umano e il tecnologico.

Tre figli, dunque, tre reazioni diverse. Giacomo e Franz, accumunati dalla necessità prioritaria di rassicurare il proprio padre della loro profonda gratitudine, Barbara, invece, che si mette fin da subito su di un piano di parità col padre, sia quando decide di andarsene per incontrare il ’68 e lasciare la casa paterna per lunghissimi anni (dopo una lunga latitanza sconta 25 anni di carcere), sia ora che, non paga, lo tira da morto per la manica e lo strattona, sembrandole di aver trovato la chiave per convincerlo finalmente delle sue buone ragioni.

I padri invece – un nobile colto, un grande commerciante che si è fatto da sé e un proletario che si è illuso di poter vivere individualmente “senza padroni” – sono uguali. Si sentono traditi dai figli, il loro potere messo in discussione, la loro eredità defraudata. Non riescono a immaginare che alla loro progenie non basti il mondo che hanno preparato e lasciato.

Con questa sua Lettera, scritta con stile composto, senza sbavature sentimentali e con un tono un po’ profetico e un po’ apocalittico, forse Barbara Balzerani ha anche tradito il desiderio di riprendere quel posto di figlia prediletta nel cuore del padre e di riascoltare ancora le sue storie impossibili, che non avevano il dono della tagliente verità (“non me l’hai raccontata giusta”), ma sicuramente quello dell’amore paterno. Un amore inspiegabile razionalmente ma di cui anche le figlie più emancipate sentono in fondo la nostalgia. Anch’io scrissi una lettera a/su mio padre (artigiano ed affabulatore come quello di Barbara) perché è stato meraviglioso essere una bambina amata; forse proprio da questo amore sicuro e pieno, seppur imperfetto, Barbara Balzerani ha attinto la forza di agire e credere che potesse espanderla a tutta quella parte di mondo che continua a chiedere giustizia.

Eppure arriva il tempo di abbandonare i padri con i loro attrezzi di lavoro (ben rappresentati in copertina al libro) al loro destino per andare, invece, incontro al pericolo evitando di voltargli le spalle.

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