Simona Baldanzi sceglie John Steinbeck

Paragrafi d’autore: questa volta è il turno di Simona Baldanzi che per la rubrica ha scelto di parlarci di John Steinbeck, uno scrittore determinante per la sua formazione e per la sua attenzione non comune verso i disagiati, le classi minori, i lavoratori.

Ho scelto questi pezzi tratti da alcuni libri di John Steinbeck perché descrivono bene i sentimenti della working class, come singoli e come massa. La paura, il terrore, lo scontento, la rabbia, l’inquietudine, l’amarezza, diventano forze propulsive, di cambiamento, ma anche di distruzione, di sfaldamento, di sconfitta. Il delicato equilibrio della lotta di classe, di sentirsi un pezzo, di portarsi addosso la solitudine e la collettività. Da questi pezzi si sente la pancia, le condizioni materiali e il pensiero, l’elaborazione del pensiero, la difficoltà di costruirlo, di definirlo, come tante questioni lavorano dentro, si modificano. Leggendo Steinbeck ho avvertito dentro anch’io la necessità di raccontare i lavoratori, gli emarginati, chi si sposta per necessità di un futuro migliore, scrivere di loro, ma col continuo dubbio di tenere in mano uno strumento, quello della scrittura, da secoli in mano al potere, a chi porta via, non a chi subisce. La difficoltà di raccontarli per quello che sono, nella forza, nell’eroismo e nella debolezza, crudeltà, disfatta.

Simona Baldanzi

 Furore (Traduzione integrale di Sergio Claudio Perroni, Bompiani)

“Ho imparato a scrivere che manco te l’immagini. Pure uccelli e roba così, mica solo a scrivere parole. Chissà come ci resta male il mio vecchio appena gli faccio un uccello con una botta di matita. Capace che diventa una bestia se mi vede che faccio una roba così. Non gli piacciono queste cose da ricchi. Non gli piace manco scrivere le parole. Gli mette paura, mi sa. Ogni volta che Pa’ ha visto roba scritta era qualcuno che gli portava via qualcosa”. (pag. 76)

Gli è venuta quell’aria calma di quando muore qualcuno. (pag. 102) 

“E mi sono messo a pensare, ma non era proprio pensare, andava più giù di quando pensi. E mi sono messo a pensare ch’eravamo tutti anti quand’eravamo una cosa sola, e l’umanità era santa quand’era una cosa sola, e l’umanità era santa quand’era una cosa sola. E non era più santa solo quando un povero disgraziato si pigliava il morso tra i denti e se ne scappava per conto suo, scalciando e tirando e lottando per conto suo. Quelli come lui guastano tutta la santità. Ma quando lavorano tutt’insieme, non un uomo per un altro uomo, ma tutti come se hanno sul collo le corde per tirarsi tutta la baracca…quello sì, quello è santo. E poi mi sono messo a pensare che manco so che voglio dire quando dico santo.” (pag. 115-116)

“Un giorno gli eserciti dell’amarezza andranno tutti nella stessa direzione. E marceranno insieme, e spargeranno un terrore di morte”. (pag. 124) 

“Gente in fuga dallo spavento che ha lasciato dietro di sé…le capitano cose strane, alcune tristemente crudeli e altre così belle da riaccendere per sempre la fede”. (pag. 171) 

Se riusciste a capire questo, voi che possedete le cose che il popolo deve avere, potreste salvarvi. Se riusciste a separare le cause dagli effetti, se riusciste a capire che Paine, Marx, Jefferson e Lenin erano effetti, non cause, potreste sopravvivere. Ma questo non potete capirlo. Perché il fatto di possedere vi congela per sempre in “io”, e vi separa per sempre dal “noi”.
“Gli stati dell’Ovest sono inquieti alle prime avvisaglie del cambiamento. Il bisogno fa da stimolo all’idea, l’idea all’azione. Mezzo milione di persone che si spostano nel paese, un milione di scontenti pronti a spostarsi; dieci milioni che avvertono i primi sintomi di inquietudine.”
“E trattori che scavano solchi su solchi sulle terre abbandonate”. (pag. 213)

E poiché tutti loro erano sperduti e confusi, poiché tutti loro venivano da un luogo di amarezza, affanno e sconfitta, e poiché tutti loro erano diretti verso un luogo nuovo e misterioso, si raccoglievano insieme; parlavano insieme; mettevano in comune le loro vite, il loro cibo, e le cose che speravano di trovare nella nuova terra. Così poteva succedere che una famiglia si accampasse vicino a una sorgente, e un’altra si accampasse lì sia per la sorgente sia per la compagnia, e una terza perchè due famiglie avevano collaudato il posto e l’avevano trovato buono. E al tramonto si ritrovavano raccolte lì venti famiglia e venti macchine. Di sera avveniva una cosa strana: le venti famiglie diventavano una famiglia, i figli diventavano figli di tutti”. (pag. 270)

“Poi un giorno si cambia, e da quel giorno una morte è un pezzo di tutte le morti, e una nascita è un pezzo di tutte le nascite, e nascere e morire sono due pezzi della stessa cosa. Allora le cose non stanno più da sole. E un male non fa più tanto male, perchè non è più un male che se ne sta da solo, Rosasharn. Vorrei dirtelo più chiaro per fartelo capire, ma non lo so fare”. (pag. 292-293)

“Le preghiere il lardo non te lo danno. Per riempirti la pancia ci vuole il maiale”. (pag. 348)

“Non riusciranno a spazzarci via. Noi siamo tosti, noi andiamo avanti”.
“E ci pigliamo un sacco di bastonate”.
“Lo so” Ma’ ridacchiò. “Magari è quello a farci forti. I ricchi germogliano e muoiono, e hanno figli che non valgono niente, sono piante che appassiscono. Ma noi no, Tom: noi non possiamo finire. Sta tranquillo, Tom. Ora le cose cambiano.”
“Come fai a saperlo?”
“Come non lo so, ma lo so.” (pag. 391)

E tutti ascoltavano, e i loro volti erano sereni nell’ascolto. I raccontatori, rastrellando attenzione per le loro storie, usavano toni eroici, usavano parole eroiche, perché quelli erano racconti eroici, e chi li ascoltava si sentiva eroico grazie a loro. (pag. 453)

È roba che ti pesa addosso. Cercare qualcosa quando sai che non la trovi. (pag. 487)

“Le rogne nascono tutte dal bisogno. Io non ce l’ho ancora tutto chiaro. Ma la questione è che un giorno ci hanno dato dei fagioli malandati. Uno s’è lamentato, e non è successo niente. Allora s’è messo a urlare. Il secondino viene, da’ un’occhiata e se ne va. Allora s’è messo a urlare un altro e alla fine, amico mio, ci siamo messi a urlare tutti quanti. E urlavamo tutti con la stessa voce, così forte ch’era come se la cella stava scoppiando. Perdio! Allora sì ch’è successo qualcosa! Quelli sono arrivati di corsa e ci hanno dato dell’altra roba da mangiare…e non era malandata, capisci?” (pag. 531)

 E quando gli uomini erano in gruppo, la paura spariva dai loro volti e la rabbia prendeva il suo posto. E le donne sospiravano di sollievo, perché capivano che andava tutto bene: il crollo non c’era stato; e non ci sarebbe mai stato nessun crollo finché la paura fosse riuscita a trasformarsi in furore. (pag. 605)

 Peggio stiamo e più tocca che ci diamo da fare. (pag. 619)

 La battaglia (Traduzione di Eugenio Montale, Bompiani)

“Che genere di sentimenti?”
“ È difficile a dirsi, giovanotto. Sapete prima che l’acqua si metta a bollire quel palpito che ha? È un sentimento di questa specie. Sono stato tutta la vita bracciante giornaliero. Non c’è un ordine in ciò che dico. È come l’acqua prima che si metta a bollire”. I suoi occhi erano scuri e fissi nel vuoto. Alzò la testa, in modo che due strisce di pelle si formarono tra il mento e la gola. “Forse sarà per la troppa fame che s’è fatto. O per i calci di troppi padroni. Non lo so ma lo sento nella pelle.” (pag. 78)

“Tutti gli smarrimenti e gli errori della storia sono dovuti a uomini pratici che guidano uomini con stomachi”. (pag. 155)

“Ora che la furia era passata gli scioperanti si sentivano come avvelenati dalla loro stessa collera, indeboliti. Uno di loro si mise la testa fra le mani come se gli dolesse forte”. (pag. 186)

“Non cervello, Jim, non ci vuole cervello. È una cosa che lavorerà dentro, a loro insaputa. Lo sapranno senza pensarci mai”. (pag. 321)

L’inverno del nostro scontento (Traduzione di Luciano Bianciardi, Bompiani)

“Non è che un uomo finisca fuori combattimento, ossia, dico, un uomo si batte contro le cose grosse. Ma quel che l’uccide è l’erosione; a furia di colpetti finisce al tappeto. A poco a poco si impaurisce. E io ho paura. La società elettrica di Long Island può tagliarmi i fili. Mia moglie ha bisogno di vestiti. E i figlioli…scarpe, divertimenti. E se non potessi dar loro un’istruzione? E i conti ogni mese e i denti, e l’operazione alle tonsille, e oltre tutto, mettiamo che io mi ammali, e che non possa più spazzare questo marciapiede! Certo che lei non capisce. È una cosa lenta. Rode dentro. Io non riesco a pensare oltre la rata del frigorifero, il mese prossimo. Odio il mio lavoro e ho paura di perderlo. Lei queste cose come potrebbe capirle?” (pag. 22)

“Le comunità, come le persone, hanno periodi di salute e periodi di malessere, e anche di giovinezza e di vecchiaia, di speranza e di sconforto”. (p. 191)

“Ho bisogno di qualcosa da odiare. Che mi faccia scontento e comprensivo, ecco. Cerco un odio vero, che mi calmi”. (pag. 290)

 

Simona Baldanzi, nata a Firenze nel 1977. Tra i suoi romanzi Figlia di una vestaglia blu (2006, Fazi; Editore Alegre 2019), Bancone verde menta (2009, Elliot), l’inchiesta Mugello sottosopra (2011, Ediesse), Maldifiume, acqua, passi e gente d’Arno (Ediciclo, 2016). Alcuni suoi racconti sono apparsi su quotidiani e antologie, fra cui “Padre” (Elliot, 2009), “Decameron 2013” (Felici, 2013), “Toscani Maledetti” (Piano B, 2013) e “Pensiero Madre” (NEO, 2016).