Il successo della serie televisiva Babylon Berlin, arrivata sugli schermi a partire dal 2017, ha indubbiamente contribuito a riaccendere i riflettori sulla Germania di Weimar nei cui confronti nella seconda metà degli anni Settanta si è guardato come a un incredibile laboratorio della trasformazione culturale europea. I romanzi di Volker Kutscher insieme alla serie e altre produzioni creative a essi ispirate permettono a un indubbio conoscitore della cultura tedesca come Leonardo Quaresima di verificare con quali occhi si guardi nel nuovo millennio a quel “disturbante quindicennio” tedesco, in particolare alla città di Berlino.
E allora vale la pena ricordare che a fine anni Venti a Berlino si contano 49 teatri, tre di questi dedicati all’opera e tre al varietà, 75 locali di cabaret, 363 cinema, 37 società cinematografiche, 200 case editrici, 45 quotidiani in edizione mattutina, un paio pomeridiani e 14 serali.
La Berlino di quell’inquieto quindicennio è la città della flânerie, esperienza strettamente imparentata con quella cinematografica, ma è anche una città caratterizzata da un erotismo e un libertinaggio che, lungi dal manifestarsi come dimensione segreta e privata, non esitano a essere esibiti pubblicamente. A riprova di come la Berlino dell’epoca potesse apparire come una sorta di resuscitata Sodoma e Gomorra basti pensare che nel periodo compreso tra il 1919 a l’inizio del 1933 si pubblicano in città tra le 25 e le 30 diverse riviste omosessuali e si contano tra gli 80 e i 100 locali gay e lesbo.
Gli anni di Weimar vedono fare capolino una “donna nuova”, economicamente indipendente al punto di conquistarsi lo spazio pubblico, dunque libera di uscire autonomamente e, per esempio, di frequentare i caffè senza dover fare da spalla al marito, una donna, insomma, che padroneggia il proprio destino. È questo tipo di donna che appare nei dipinti della Neue Sachlichkeit e in numerose rappresentazioni teatrali e cinematografiche, oltre che in diversi romanzi dell’epoca. Una donna disinibita, lontana dagli stereotipi tradizionali della seduzione e dalla figura della femme fatale, forse più vicina, suggerisce Quaresima, alla flapper che compare in diverse pellicole hollywoodiane.
“In questo terreno, in cui inedita visibilità acquistano dunque le culture gay, lesbiche, transessuali, l’instabilità, la mobilità di genere pervade la notte berlinese” (p. 21). E di fronte all’inedita autonomia di cui gode la donna e all’aggressività con cui questa si pone di fronte alla realtà, che l’uomo inizia a manifestare la sua ansia, la sua destabilizzazione. Non a caso, sottolinea Quaresima, in diversi film tedeschi dell’epoca al mascolinizzarsi della figura femminile corrisponde un femminilizzarsi di quella maschile.
È questo lo scenario che si ritrova nei romanzi polizieschi di Volker Kutscher, in opere come Berlin Alexanderplatz (1929) di Alfred Döblin, Gilgi (1931) e Das Kunstseidene Mädchen (1932) di Irmgard Keun, Fabian (1931) di Erich Kästner, Die Dreigroschenoper (1928) di Bertold Brecht e Kurt Weill, Dr. Mabuse, der Spieler (1922) ed M (1931) di Fritz Lang, solo per citare alcuni dei tanti titoli indicati da Quaresima.
Ed è a tale universo che si rifà la serie televisiva – definita dagli autori “un enorme film di 12 ore” – Baylon Berlin (2017- in produzione) ideata, sceneggiata e diretta da Hendrik Handloegten, Tom Tykwer e Achim von Borries sulla base dei romanzi di Volker Kutscher imperniati attorno alle gesta del commissario di polizia di Gereon Rath. Il ciclo di romanzi oltre a suggerire la serie serie televisiva, ha ispirato anche il graphic novel Der nasse Fisch (2017) di Arne Jysch e Volker Kutscher, da cui è derivato un videogioco, e ha portato anche a due spin-off letterari di Kutscher (Moabit, 2020 e Mitte, 2021).
Le prime due stagioni della serie televisiva si rifanno al romanzo di Kutscher pubblicato nel 2007 Der nasse Fisch (tr. it. di Palma Severi e Rosanna Vitale, Il pesce bagnato, Mondadori 2010, poi Babylon Berlin, Feltrinelli 2017), mentre la terza stagione riprende gli eventi narrati nel romanzo uscito nel 2009 Der stumme Tod. Gereon Raths zweiter Fall (tr. it. di Lucia Ferrantini, La morte non fa rumore, Feltrinelli, 2018).
Quaresima puntualizza come tanto i romanzi di Kutscher quanto la serie abbiano tratto ispirazione dal ciclo di racconti berlinesi del 1939 Goodbye to Berlin di Christopher Isherwood (tr. it. di Laura Noulian, Addio a Berlino, Adelphi 2013). La serie non manca di esplicitare debiti cinematografici: Berlin Alexanderplatz (1931) di Piel Jutzi, Menschen Am Sonntag (1930) di Robert Siodmak, Edgar Ulmer e Billy Wilder, Berlin. Die Sinfonie der Großstadt (1927) di Walter Ruttmann. Di questo ultimo autore sono riprese nei titoli di coda di ogni puntata alcune figurazioni dinamiche tratte da Opus 2 (1921) e Opus 4 (1924). Tra le fonti di ispirazione cinematografiche Quaresima indica anche opere di Joe May, Georg Wilhelm Pabst, Josef von Sternberg, Henry Cornelius, Bob Fosse, Rainer Werner Fassbinder e Sam Mendes.
Rispetto al romanzo di Kutscher, sottolinea Quaresima, l’ambientazione della serie televisiva concede sicuramente molto più spazio alla città ricorrendo per quanto possibile ad ambientazioni reali ma anche ricostruendo alcune strade negli studi di Neubabelsberg e facendo uso di qualche elaborazione digitale. Circa la musica, pur prestando attenzione filologica, gli autori hanno inteso “offrire uno sguardo sul passato orientato dal presente” ed è in questa ottica che devono essere visti tanto la collaborazione con Bryan Ferry, alle prese con Bitter Sweet (1974) dei Roxy Music, nella seconda stagione, quanto il brano più celebre della serie, Zu Asche, zu Staub (2017) scritto da Tom Tykwer e interpretato dalla Contessa Sorokina en travesti. Insomma il tentativo è stato quello di portare qualche eco del presente nel passato al fine di attualizzare quest’ultimo. Se da un lato la fine degli anni Venti è vista con occhi recenti, dall’altro un riflesso dei periodi più recenti viene proiettato nel passato.
Nel libro viene ricostruita meticolosamente la vastità delle fonti legate alla sfera culturale tedesca da cui attinge la serie televisiva ponendo l’accento in particolare sulla nuova figura di donna tratteggiata da Irmgard Keun e su Goodbye to Berlin di Isherwood. L’ambientazione proletaria presente in quest’ultima opera – a sua volta derivata dal film Mutter Krausens Fahrt ins Glück (1929) di Piel Jutzi – la si ritrova in Baylon Berlin nel mondo di provenienza di Charlotte, a essere ripresi da essa sono anche le atmosfere dei locali notturni.
Quanto però, invita a chiedersi Quaresima, “l’attualità della rappresentazione, in Babylon Berlin, della vitalità sessuale della donna, equiparata a tutti gli effetti a quella maschile, vitalità che oggi ci appare così “moderna”, corrisponde effettivamente alla situazione degli anni ’20, o scaturisce dalla proiezione, operata dalla serie, della condizione contemporanea sull’età di Weimar?” (p. 49).
Altro elemento interessante che attraversa la serie televisiva riguarda i segni lasciati dalla Grande Guerra sul personaggio di Gereon Rath; il generico “malessere psichico” narrato dall’opera letteraria di Kutscher nella serie televisiva diviene un più dettagliato “trauma da esplosione” curato attraverso la sperimentazione dell’ipnosi, pratica che finisce per rimandare, al di là dei traumi specifici del personaggio, a un più esteso disagio nei confronti dei cambiamenti politici e sociali che segnano l’epoca. Molti testi degli anni Venti, ricorda Quaresima, sono disseminati di mutilazioni e cicatrici deformanti così da segnalare come le tracce della guerra e della sconfitta segnino non solo la psiche ma anche il corpo dei reduci.
Rispetto all’opera narrativa, la serie televisiva accentua il nuovo tipo di femminilità incarnato da Charlotte anche dal punto di vista fisico, rendendola meno convenzionale, più androgina e se nei romanzi la storia d’amore con Gereon appare più lineare e convenzionale, nella versione audiovisiva, evidenzia Quaresima, diviene più intermittente e continuamente rimandata.
La scelta di una provenienza esplicitamente proletaria della protagonista fatta dalla serie permette di introdurre il suo doversi prostituire in un lussuoso bordello per mantenere la famiglia senza che Charlotte provi o manifesti autocommiserazione. Si tratta di una metamorfosi importante rispetto al romanzo approvata dallo stesso Kutscher che la considera un’evoluzione possibile e plausibile del personaggio da lui creato. Lo stesso commissario Gereon si trasforma nella serie rispetto a quello proposto dall’opera originaria e diviene assai più contrastato e altalenante nel rapporto con la protagonista femminile. Nell’adattamento audiovisivo anche altri personaggi vengono modificati, soprattutto quello di Stephan Jänicke.
Quaresima evidenzia anche come nonostante l’opera narrativa resti a lunghi tratti nel solco del romanzo di genere un po’ stereotipato, Kutscher introduca in essa frequentemente riferimenti tematici e soluzioni linguistiche cinematografiche.
“I romanzi del ciclo di Kutscher, dopo la realizzazione della serie televisiva, dopo la realizzazione del graphic novel, dopo il ventaglio di prolungamenti proposto dal videogioco, ecc., non sono, alla lettera, più loro stessi” (p. 75). Alla luce dell’intersecarsi di tutti questi testi diventa difficile definire cosa è nel nostro immaginario Babylon Berlin; di certo non è semplicemente un adattamento audiovisivo di un ciclo di romanzi.
“Chiamo Babylon Berlin l’insieme delle materializzazioni in sistemi diversi, con principi diversi, con espansioni o riduzioni conseguenti, di una determinata “manifestazione espressiva”. Questa, anzi, non è separabile da tale pluralità, è giustamente costituita dalla esistenza simultanea e parallela di tutte le sue formulazioni e consistenze. Il caleidoscopio può essere allora, e forse lo è anche al di là del nostro caso specifico, il modello che può guidare e orientare la nostra percezione” (pp. 92-93).
Il caleidoscopio Babylon Berlin, suggerisce Quaresima, dimostra come il testo non sia “un unicum, fondato dalla singolarità di un oggetto, e fondato sulla singolarità di un soggetto” ma, piuttosto, sia «sempre un insieme, una costellazione” e si manifesti “sempre come esistenza plurale” (p. 97).