Autunni Caldi: la fiction climatica è la nuova fantascienza impegnata?

L’allarme per il disastro ecologico non è più patrimonio esclusivo del post-catastrofico, è uscito dalle pagine della science fiction per diventare preoccupazione comune di scrittrici e scrittori in tutto il mondo.

Da un quarto di secolo a questa parte abbiamo visto un proliferare di opere di fiction — letteratura e cinema — che affrontano il tema dell’impatto ambientale dei cambiamenti climatici indotti dalle attività umane. Questo corpus di testi in rapida crescita è conosciuto oggi con il termine “climate fiction”, in italiano talvolta “fiction climatica”.

In precedenza, erano soprattutto studi scientifici a puntare il dito contro l’inquinamento, il consumo di risorse non riproducibili, l’effetto serra: la divulgazione scientifica diffonde, almeno da fine anni Sessanta,  dati e resoconti e proiezioni allarmanti, con scarso coinvolgimento dell’opinione pubblica. La novità è il fatto che, finalmente, la fiction ha cominciato a interessarsi alla questione: si può dire, con Susanne Leikam e Julya Leida, che la climate fiction “è passata da colloquialismo sottoculturale che circola nella blog-sfera a parola d’ordine culturale e termine accademico.”[1]

Le storie sul cambiamento del clima per mano umana non sono una novità assoluta: fino dall’antichità — pensiamo alla mitologia greca — si è fantasticato sulla possibilità di influenzare gli elementi atmosferici; la climate fiction nasce però insieme alla consapevolezza del cambiamento climatico globale, delle sue cause principali nello sfruttamento delle risorse fossili, del rischio di danni irreparabili alla civiltà e alla qualità della vita.

La prima comparsa dell’etichetta “climate fiction” risale al 2008, per mano dello scrittore freelance Dan Bloom, che vive tra Tōkyō e Taiwan; tuttavia si è imposta nell’uso comune solo cinque anni più tardi, grazie alla divulgazione della rivista Christian Science Monitor e alla radio no-profit NPR, che per prime parlarono di una corrente letteraria incentrata sull’origine umana del cambiamento climatico.

In seguito, Dan Bloom fornì la propria definizione di cosa intendesse con “climate fiction”: Cli-fi è un nuovo termine per romanzi, racconti e film, opere d’arte e narrativa che si occupano di cambiamenti climatici e problemi di riscaldamento globale, […] in cui il cambiamento climatico è un tema importante , anche se non sempre il tema principale. (intervista a David Thorpe, da SmartCitiesDive)

Prima che la fiction climatica diventasse un vero e proprio genere, o sottogenere, la letteratura moderna si è già occupata di questioni climatiche; due esempi:

  • Il mondo sottosopra (1889) di Jules Verne, i cui protagonisti intendono raddrizzare l’asse terrestre per renderlo perpendicolare al piano dell’ellittica, con il rischio di provocare una catastrofe climatica;
  • forse il primo autore a denunciare la possibilità di disastro ambientale a causa dell’inquinamento provocato dal consumismo è il canadese Laurence Manning in L’uomo che si destò (1933), il cui protagonista si risveglia dall’animazione sospesa nell’anno 5000 per scoprire che l’umanità stenta a salvarsi dal disastro della Grande Era dei Rifiuti.

Avvicinandosi ai giorni nostri, e alla data presunta di nascita della climate fiction, non sorprende certo che le prime prove mature e interessanti abbiano origine nella fantascienza degli anni Novanta:

  • La parabola del seminatore (1993) di Octavia Butler è ambientato in un futuro destabilizzato dal cambiamento climatico; una adolescente che vive nella California devastata da siccità e incendi, viaggia verso nord insieme a alcuni seguaci del sistema filosofico e religioso da lei elaborato, “Il seme della terra”.
  • Atmosfera letale (1994) dello statunitense Bruce Sterling può essere idealmente considerato l’anello di congiunzione tra cyberpunk e solarpunk. La vicenda è ambientata nel nostro secolo, in un pianeta sconvolto dal disastro ecologico provocato dal capitalismo. Il clima è impazzito, gli abitanti sono in balia di virus mutanti. Il protagonista, un giovane affetto da varie patologie ai polmoni, insieme alla sorella maggiore si unisce a un gruppo di ricercatori che inseguono tornado negli USA desertificati dall’effetto serra; gli scienziati attendono un uragano F-6, un evento meteorologico estremo, solamente teorizzato con proiezioni matematiche, potenzialmente in grado di mettere in pericolo decine di migliaia di vite.

Quali sono i confini tra post-apocalittico, fiction climatica e solarpunk? Dove finisce l’uno e dove inizia l’altra?

 

Il post-apocalittico può essere ambientato dopo una catastrofe climatica planetaria, e in genere racconta storie di sopravvivenza o di rinascita civile, culturale, sociale — benché il più delle volte si riduca a uno scenario in cui i sopravvissuti si trovano a lottare per la propria esistenza contro altri gruppi di sopravvissuti, in parabole morali reazionarie senza alcuna relazione con ciò che avviene in situazioni di pericolo collettivo.

Il solarpunk immagina storie ambientate in un futuro migliore dell’attuale, di impronta anche utopica, con società fondate sulla sostenibilità ambientale, inclusione, democrazia dal basso; può avere punti di contatto con la climate fiction, come situazione di partenza per la trama oppure come scenografia per raccontare come si affronta il degrado climatico.

La necessità di passare oltre la climate fiction per arrivare al solarpunk è esplicitata bene da uno tra i più conosciuti autori di fantascienza, lo statunitense Kim Stanley Robinson: Abbiamo sicuramente bisogno di più storie che descrivano persone che affrontano il problema globale e trovano soluzioni. Sono storie nuove, che sono rare, e possono essere molto preziose per aiutare le persone a immaginare come il mondo possa diventare un pianeta in cui le persone sono in buon equilibrio con la biosfera. Il mondo è la nostra unica e sola casa, quindi dobbiamo prendercene cura, altrimenti niente andrà bene. (Sonam Joshi intervista K.S. Robinson, in The Times of India, 2022; intervista tradotta da Silvia Treves per Solarpunk Italia).

Questo passaggio al solarpunk è auspicabile, in quanto la fiction climatica non sempre è in grado di dare risposte all’ansia del futuro che provoca: spesso è parente prossima del distopico piuttosto che dell’utopia. Uno studio dello Yale-NUS College di Singapore del 2018 ha infatti rilevato che solo il 26% dei lettori afferma che la lettura di un libro di climate fiction ha suscitato in loro una risposta emotiva positiva: la maggior parte si sente angosciata, triste o ansiosa.

A ogni modo, fra i tre generi citati, la fiction climatica è oggi quello che più ha avuto successo tra gli autori non legati al genere, ancora più del post-apocalittico che comunque ha fornito ambientazioni per libri anche di grande successo, si veda La strada (2006) di Cormac McCarthy — che tra l’altro, secondo me inopinatamente, è stato incluso da The Guardian tra i cinque più importanti romanzi sul cambiamento climatico (!).[2] L’allarme per l’innalzamento della temperatura media del pianeta è infatti uscito dalle pagine della fantascienza per diventare preoccupazione comune di scrittrici e scrittori in tutto il mondo.

Direi che gran parte della narrativa americana sul clima sia decisamente di natura apocalittica o distopica, ma penso che stia cambiando. Quando inizieremo a vedere più fiction sul clima pubblicate in questo paese da autori di altre parti del mondo, inizieremo a vedere più tipi di strutture narrative che non si basano su questo binario di speranza e disperazione, utopico e distopico. (Amy Brady, direttrice esecutiva di Orion Magazine, cit. in Anna Funk, “Gli scrittori di climate fiction possono raggiungere le persone in modi preclusi agli scienziati?”, Smithsonian Magazine 2021, tradotto da Silvia Treves per Solarpunk Italia)

Infatti, la natura della climate fiction non è necessariamente speculativa[3], le storie possono essere ambientate anche nel nostro presente o nel futuro molto prossimo, e ciò a quanto pare risulta un incentivo per autori e autrici che non ci tengono a associare il proprio nome alla fantascienza.

Non c’è dubbio che l’autore che più continuativamente ha scritto opere di fiction climatica, in un periodo di decine di anni, sia lo statunitense Kim Stanley Robinson. Attualmente nessun autore al mondo — e non molti scienziati o economisti — sono in grado di fare una proiezione su come sarà possibile evitare un’apocalisse ecologica e sociale, di proporre un’ipotesi che preveda soluzioni in campo economico, tecnologico, sociale e politico, altrettanto realistica di quella contenuta nel suo romanzo Il Ministero per il Futuro (2020).

La storia inizia con un evento catastrofico: un’onda anomala di calore colpisce l’India, una temperatura così alta da provocare milioni di vittime. La tragedia ha conseguenze planetarie: i governi dei paesi più sviluppati si rendono conto del pericolo di una catastrofe ecologica e fondano un’agenzia internazionale chiamata Ministero per il Futuro, sorta di “avvocatura” per le generazioni che ancora devono nascere, e che rischiano di venire al mondo in un ambiente irreparabilmente compromesso. Quali poteri ha in concreto il Ministero? Cosa può fare contro l’inerzia dei governi, il disinteresse delle banche centrali, l’ostilità di tutti coloro che fondano il loro tenore di vita sullo sfruttamento di combustibili fossili, non solo le multinazionali del petrolio, ma anche intere nazioni? Se Robinson ha ragione, per raggiungere una vera sostenibilità non sarà assolutamente sufficiente la volontà di tutto il mondo, perché ci saranno forze che si opporranno con ogni mezzo: un negazionismo cieco e egoista che preferirà vedere la Terra devastata piuttosto che cambiare abitudini di vita.

Nel decennio precedente, quando neppure era nata l’etichetta “climate fiction”, Robinson aveva già esplorato le conseguenze del riscaldamento globale nella trilogia Science in the Capital, inedita in Italia; è composta dai romanzi Forty Signs of Rain (2004), Fifty Degrees Below (2005), e Sixty Days and Counting (2007). I temi che affronta sono estremamente attuali: l’innalzamento del livello dei mari, lo sforzo internazionale per riattivare la Corrente del Golfo il cui flusso si arresta, lo scontro tra scienziati e negazionisti sul cambiamento climatico, la necessità di affrontarlo sia a livello di politica nazionale che di relazioni internazionali.

È il caso di ricordare anche New York 2140 (2017), ambientato nella metropoli americana parzialmente sommersa a causa dell’innalzamento dell’oceano; la storia racconta un tentativo di colossale speculazione immobiliare a danno degli ultimi residenti non abbienti, mentre un uragano colpisce con catastrofica violenza quello che rimane della città, costringendo New York allo stato di emergenza. Ciò provoca la rivolta di chi ha perso tutto contro l’un per cento degli abitanti più ricco, chiuso nei suoi quartieri e nei suoi palazzi per non aprire gli alloggi vuoti e sfitti.

Poiché fino a non molti anni fa le storie sul clima danneggiato dall’azione antropica erano patrimonio quasi esclusivo della fantascienza, è normale che il gruppo nazionale più numeroso di opere provenga dagli Stati Uniti, il più grande mercato editoriale per la science fiction — benché in questo campo la Cina stia facendo passi da gigante.

L’afroamericana Sherri L. Smith pubblica nel 2013 Orleans, romanzo young adult afrofuturista con ambientazione distopica — talvolta si fatica a distinguere la fiction climatica dal post-catastrofico. Dopo una serie di devastanti uragani, la costa del Golfo del Messico viene messa in quarantena a causa di una grave epidemia; anni dopo, tutti sono convinti che la vita nel Delta del Mississippi sia quasi estinta; in realtà la società è regredita a uno stadio tribale. La protagonista è determinata a portare il figlio del capo della tribù Zero Positivo oltre il Muro che circonda la zona del delta.

L’americano Paolo Bacigalupi, autore di quel The Windup Girl (2009) stranamente tradotto con il titolo La ragazza meccanica (e tra l’altro pubblicato in Italia da una casa editrice specializzata in gaming, non in letteratura), ha scritto anche l’interessante The Water Knife (2015). Gli stati sudoccidentali degli USA sono devastati dalla siccità indotta dal cambiamento climatico; il protagonista lavora sottraendo acqua pubblica per dirottarla a delle arcologie di Las Vegas abitate dai ricchi; inviato nel torrido sud per verificare una straordinaria disponibilità d’acqua in Arizona, incontra una giornalista e una giovane migrante dal Texas, che sogna di fuggire a nord.

Dello stesso anno è la pubblicazione di Deserto americano (2015) di Claire Vaye Watkins: la siccità ha trasformato la California in un unico grande deserto; i fiumi, il verde, la fauna, il fogliame lussureggiante, i frutteti sono svaporati come l’acqua degli ultimi bacini sorvegliati dalla Guardia nazionale. I protagonisti sono un’ex modella vezzeggiata e poi messa da parte dal mondo della moda, e un reduce dell’esercito che si è lasciato alle spalle crisi, carestie e guerra; un giorno scendono a Los Angeles dove si imbattono nella danza della pioggia di un raduno punk, poi rapiscono una bambina maltrattata dai parenti, e affrontano un lungo viaggio su strade arroventate e poco sicure verso il verde, fertile Wyoming, oltre il deserto: un percorso visionario in un’epoca oscura, dominata da disuguaglianze sociali, nella quale violenza, misticismo e superstizione germogliano tra le rovine del sogno americano.

È stato tradotto in italiano anche Tempo variabile (2020) di Jenny Offil. Lizzie è una bibliotecaria generosa e un po’ spaesata, con la quale le persone si confidano. Un giorno un’amica, esperta di cambiamento climatico, le chiede di incaricarsi di rispondere alle mail degli ascoltatori del suo podcast: messaggi allarmati su come sopravvivere a una catastrofe, sul controllo globale, sulla fine dell’umanità, che amplificano le sue preoccupazioni fino a mettere in dubbio ogni sua certezza, compreso l’amore per il marito. Eppure resiste, opponendosi alla paura per il futuro in un’America in balia degli stravolgimenti climatici e dell’arroganza della politica.

Desertificazione del sud-ovest e innalzamento del livello dei mari sono quindi le principali preoccupazioni degli autori americani; occorre notare però come con il passare degli anni le questioni climatiche siano passate da autori “di genere” come Robinson, Smith e Bacigalupi, a autori e autrici chiaramente mainstream — e questa tendenza aumenta e si amplifica negli ultimi anni.

È del 2020 I figli del diluvio di Lydia Millet, la cui trama sembra una via di mezzo tra Il signore delle mosche di Golding e Un gioco da bambini di Ballard.[3] Alcune famiglie trascorrono le vacanze estive insieme in una villa in riva all’oceano; i genitori si dedicano a alcolici e ozio, i figli minorenni sono abbandonati a se stessi: maschi e femmine tra 7 e 17 anni che rifiutano il comportamento imbarazzante degli adulti. Sulla scena irrompe un evento meteorologico devastante, un diluvio che non solo demolisce la villa, ma distrugge la città. I ragazzi si trovano a doversela cavare da soli in una terra irriconoscibile. Gli adulti rappresentano l’America, che ha perso la possibilità di evitare o anche solo vedere il risastro imminente; la nuova generazione invece potrebbe essere una speranza, perché si affida alla Natura trovando nuovi linguaggi, nuovi sguardi, nuove risorse per reinventare il mondo.

Nello stesso anno esce anche Terre sommerse (2020), romanzo d’esordio di Kassandra Montag, che si inserisce nel tema dell’innalzamento delle acque (di nuovo c’è il diluvio nel titolo). Gli oceani si sono riversati all’interno del continente americano, trasformandolo in un arcipelago; gli abitanti sopravvissuti sono rifugiati sui pochi lembi di terra rimasti lungo la dorsale delle Montagne Rocciose. Il crollo del potere statale ha condotto a una pericolosa anarchia, con bande di pirati che imperversano sui mari. La protagonista, sfollata dal Nebraska, naviga su una piccola imbarcazione insieme alla figlia di sette anni, vivendo di pesca e baratto. La vicenda ha una svolta quando scopre che la sua figlia primogenita, rapita otto anni prima dal padre, è ancora viva e si trova nel settentrione.

È infine molto recente, solo dell’anno scorso, Qualcosa di nuovo sotto il sole (2021) di Alexandra Kleeman. Anche questo romanzo è ambientato in California, che non cessa di essere terra-simbolo del sogno americano, anche quando questo viene meno; l’inizio è strettamente realistico, per scivolare verso il fantastico nel corso della trama. Uno scrittore, a Los Angeles per seguire le riprese di un film tratto da un suo romanzo, si accorge che la produzione trasforma una storia intima in un banale horror. È anche costretto a assistere alla devastazione della California a causa di incendi e siccità, oltre che dalla criminale insensibilità delle multinazionali: ogni cosa, acqua potabile compresa, è rimpiazzata da un prodotto artificiale studiato a tavolino dalle grandi aziende.

La climate fiction di produzione statunitense sembra recuperare alcuni cliché del post-catastrofico (l’anarchia nella sua accezione dispregiativa, il tutti contro tutti, la regressione culturale), eppure è possibile rintracciare nelle trame, nelle scelte autoriali, un’amara critica all’America di oggi, alla paralisi di chi dovrebbe prendere decisioni, alla lobby fossile che contrasta in ogni modo la presa di coscienza del disastro incombente. Certo, non c’è piena consapevolezza dello stretto legame tra capitalismo e combustibili fossili, e la catastrofe climatica è accettata anche come dato di fatto inevitabile, ma non c’è dubbio: non è più patrimonio della science fiction, anche scrittori molto lontani dal genere cominciano a riflettere sul futuro.

Spostandosi di poco dalla prospettiva statunitense, arriviamo in Canada. Molte fonti accomunano alla fiction climatica la trilogia Oryx & Crake di Margaret Atwood, che ha raggiunto fama internazionale con la serie tratta da Il racconto dell’ancella (1985), e che non perde occasione per dichiarare come ciò che scrive non sia fantascienza; tuttavia in questa terna di romanzi, tutti tradotti in Italia (effetto dei serial tv) — L’ultimo degli uomini (2003), L’anno del diluvio (2009) e L’altro inizio (2013) — la catastrofe è esplicitamente imputata alla scienza e al suo travalicare i limiti del consentito, nel tentativo di manipolare l’esistenza tramite ingegneria genetica: un tema quasi biblico, dunque, che non solo non ha nulla a che vedere con la crisi ecologica, ma è anche sostenuto da una visione reazionaria.

Interessante è invece American War (2017) del canadese di origine egiziana Omar el Akkad. Il romanzo racconta di una nuova guerra di Secessione nella seconda metà del nostro secolo, provocata dalla dichiarazione d’indipendenza di cinque stati USA, dopo che il congresso federale ha messo al bando i combustibili fossili per fermare l’effetto serra. La protagonista vive con la famiglia nella costa della Louisiana flagellata da eventi climatici estremi; costretta a emigrare, finisce direttamente coinvolta nelle vicende belliche, da una parte e dall’altra del fronte.

La consapevolezza della crisi climatica irreversibile non è né invenzione né esclusiva americana; anzi, forse la parte del leone spetta oggi alle autrici e agli autori europei, e se in libreria è più facile trovare una climate fiction d’oltre oceano, è perché una pluridecennale colonizzazione culturale spinge a tradurre quasi tutto ciò che si pubblica negli USA, trascurando spesso le letterature gemelle d’oltralpe.

Rimanendo alla lingua inglese, troviamo in Gran Bretagna Solar (2010) di Ian McEwan, autore molto apprezzato anche in Italia. La storia si svolge tra il 2000 e il 2009. Il protagonista è uno scienziato premio Nobel, che dirige il “Centro di Ricerca per le Energie Rinnovabili” nella città britannica di Reading; disilluso burocrate, non crede assolutamente nel progetto, ma si trova a ereditare da un giovane e brillante collega un brevetto di pannelli fotovoltaici che ricreano artificialmente la fotosintesi. Viene così riconosciuto come punta di diamante nello sviluppo delle energie rinnovabili, ma gli inganni e le mistificazioni con cui è arrivato alla posizione che occupa verranno a galla nel momento dell’inaugurazione del suo impianto d’avanguardia in New Mexico.

Jeannette Winterson, che esordì brillantemente con il semi-autobiografico Non ci sono solo le arance (1985), è autrice di Gli dei di pietra (2007). Il romanzo adotta alcuni luoghi comuni fantascientifici, ma va più correttamente situato nel postmoderno per la sua autoreferenzialità: alcune situazioni narrative si ripetono più volte, e i personaggi trovano e leggono sezioni precedenti del libro stesso. Entrambi gli accorgimenti tecnici sono utilizzati per mettere in guardia contro la tendenza della storia a ripetersi, dal momento che l’umanità non impara dagli errori del passato.

Il romanzo affronta la questione climatica come metafora, piuttosto che come tematica esplicita. Sulla Terra, pianeta distrutto e senza speranza diviso tra il Potere Centrale, superpotenza occidentale, il Califfato Orientale e il Patto Sinomoscovita, si diffonde come una promessa di futuro la notizia della scoperta di un nuovo mondo: il Pianeta Azzurro, con una natura intatta e un clima accogliente. Questa è soltanto la prima delle quattro parti di una trama complessa che comprende anche una storia d’amore, che Ursula Le Guin definì “sentimentale in modo stressante”, aggiungendo però che il romanzo è “una vivida messa in guardia, o più precisamente un acuto lamento per la nostra specie, irrimediabilmente incauta”.

Molto più recente è The high house (2021) di Jessie Greengrass, storia di fenomeni meteorologici estremi provocati dall’innalzamento della temperatura globale. È l’altra faccia del cambiamento climatico: l’estendersi di un clima di tipo monsonico fino alle zone temperate, fino all’Europa centro-settentrionale, mentre presumibilmente il Mediterraneo diventa un mare tropicale. È la storia di una coppia di attivisti per il clima che, resisi conto dell’irreversibilità del disastro, predispongono in segreto un rifugio sicuro nella “casa alta”, una loro proprietà immobiliare sopraelevata rispetto a un villaggio costiero che un tempo era abitato da pescatori; è destinata ai figli, un’adolescente e un bambino, che grazie all’accumulo di provviste alimentari, generi sanitari, vestiario e altro, dovrebbe riuscire a sopravvivere quando il maltempo colpirà davvero, quando tutta l’acqua che entra in circolo dalle fasce climatiche inaridite troverà sfogo nelle ex zone temperate, provocando piogge continue e spaventose, inarrestabili inondazioni.

Ancora più che in Gran Bretagna, la preoccupazione per il clima è presente tra gli scrittori francesi e scandinavi. In Francia, Nadia Coste è autrice dello young adult Rhyzome (2018): dopo una catastrofe ecologica senza precedenti, la terra sopravvive solo grazie a vegetali importati dalle lune di Giove, che purificano l’atmosfera e le acque; tuttavia la loro eccezionale proliferazione inquieta scienziati e politica. Protagonista è una giovane ricercatrice botanica che rimane contagiata da una malattia sconosciuta, e comincia a sentire voci nella mente: sono le piante, che le chiedono di fare portavoce con i governi.

Jean-Marc Ligny è autore di una trilogia che stigmatizza la follia autodistruttiva del capitalismo;  la pubblicazione è iniziata prima ancora che la climate fiction diventasse sottogenere. AquaTM (2006) è ambientato nel 2030, quando la risorsa principale che i governi cercano di accaparrarsi non è più il petrolio ma l’acqua. La trama inizia quando, in un panorama di siccità e riscaldamento globale, un piccolo paese africano assetato scopre, grazie a un’immagine satellitare piratata, una falda freatica nel proprio sottosuolo. Un enorme consorzio d’imprese americano, proprietario del satellite, rivendica il possesso dell’acqua e non si fermerà davanti a nulla per ottenerla. Il successivo Exodes (2012) ha il ritmo di un thriller. La siccità è ormai ovunque realtà sulla Terra, la temperatura è appena sopportabile all’alba, la fauna è praticamente scomparsa, una mutazione nella vegetazione la rende pericolosa. Questo quadro d’insieme provoca carestie e guerre devastanti. Qua e là sorgono le enclaves, città che una cupola protegge dal clima inospitale e dal mondo esterno; sono, naturalmente, costruite per i più ricchi. L’ultimo episodio, Semences (2015), è ambientato tre secoli più tardi; le condizioni di vita nel pianeta sono totalmente diverse da quelle che conosciamo. Una giovane coppia abbandona la sua tribù, che vive in caverne, alla ricerca del paradiso terrestre dipinto su una sciarpa di seta, ricevuta da un uomo proveniente dal deserto. Durante il viaggio scoprono città, rovine radioattive, residui di antiche tecnologie, fino alla Groenlandia dove gli Inuit sono sopravvissuti al disastro.

La trilogia di Ligny scivola dalla climate fiction al fantasy, o allo science fantasy, inseguendo i mutamenti dell’ambientazione, a mano a mano che procede verso l’ultimo volume. Meno fantastico e decisamente più disilluso è il romanzo di un autore non di genere, Pierre Ducrozet, che dopo un esordio nei dintorni del surrealismo si è dimostrato vicino alla protesta giovanile contro il cambiamento climatico. Le grand vertige (2020) si riferisce alla incapacità dell’umanità di comprendere il mondo in cui si trova, dopo secoli in cui si è considerata padrona del pianeta, della natura e di se stessa: «Siamo preda di una grande vertigine: il terreno si apre sotto i nostri piedi, il cielo sopra diventa nuvoloso. Niente rimane com’è, tutto si muove.» Il romanzo, ambientato in anni recenti, racconta un tentativo d’arrestare la catastrofe ambientale che non è mai avvenuto. Prendendo atto del cambiamento climatico causato dall’attività umana, un centinaio di governi nazionali, tra i quali significativamente non figurano né gli USA di Trump né la Russia di Putin, istituiscono una “Commissione internazionale sul cambiamento climatico e per un nuovo contratto naturale”; una cinquantina di inviati viaggiano le vie del mondo, mettendo in comune, tramite una rete web, uno “stato mondiale dei luoghi” — energia, biodiversità, mobilità — ma anche ipotesi su cosa si dovrebbe fare per arrestare il processo. Il loro lavoro si scontrerà con interessi assolutamente contrari: «Un solido e ampio esercito di pseudoscienziati, falsi esperti, economisti e politici disposti a diffondere false informazioni per i propri interessi e quelli delle compagnie petrolifere, dell’industria pesante e dei trasporti». Il romanzo è estremamente efficace per comprendere il legame perverso, diretto e strettissimo tra combustibili fossili e capitalismo, e l’inerzia dei suoi interessi economici che non riescono a arrestarsi neppure di fronte al rischio di distruggere il pianeta, cioè le risorse su cui il sistema stesso si fonda.

Arriviamo alla penisola scandinava. Il nome più conosciuto è quello della norvegese Maja Lunde, autrice di una quadrilogia che affronta «temi specifici legati al clima: insetti, acqua, animali, semi, ogni cosa che cresce sulla Terra. Ogni romanzo ha trame parallele che si svolgono sia nel nostro tempo che da qualche parte nel nostro futuro non troppo lontano, oltre a guardare indietro al nostro passato. Tutti e quattro esplorano gli esseri umani nel rapporto con la natura, e le conseguenze delle scelte che facciamo, non solo per quanto riguarda l’ecologia e il clima, ma anche le persone.» Il primo e più celebre, La storia delle api(2015), racconta su tre piani temporali le conseguenze della scomparsa degli insetti impollinatori per le colture alimentari; la trama più lontana nel futuro è ambientata nel 2098 in un distretto agricolo del Sìchuān in Cina, dove si ricorre all’impollinazione manuale di piante e ortaggi. La distruzione delle api  ha provocato una devastante crisi alimentare, da cui carestia e spopolamento di interi continenti; in questa situazione la Cina è avvantaggiata rispetto, per esempio, all’Europa, dal momento che in certe zone già oggi esiste una pratica tradizionale di impollinazione agevolata. Il mondo futuro che Lunde ci presenta è desolante, terribilmente impoverito non solo nella vita quotidiana, ma soprattutto nelle prospettive per il futuro: una civiltà in declino. La storia dell’acqua (2017), intreccia due trame; una, nel presente, racconta il sabotaggio messo in atto da un’anziana attivista ambientale contro lo sfruttamento commerciale di un ghiacciaio in Norvegia, l’altra, in un futuro drammaticamente prossimo, il 2041, racconta la vita di un profugo climatico e sua figlia che dalla cosa mediterranea della Francia, divenuta inabitabile, si muovono verso nord e finiscono in un desolante campo per “profughi climatici”. Gli ultimi della steppa (2019) è pure costruito su tre trame in tempi diversi, racconta la grande estinzione animale in corso attraverso la storia di una razza di cavalli mongola, gli Przewalski, nell’Eurasia sconvolta da cambiamenti climatici, carestie e alluvioni. L’ultimo libro della quadrilogia non è ancora stato dato alle stampe.

Svedese è invece Jens Liljestrand, autore di La foresta brucia sotto i nostri passi (2021), ottimo esempio di climate fiction emancipata dai tópoi del post-apocalittico: l’ambientazione è ai nostri giorni, appena al termine della pandemia di Covid-19, e il conflitto tra personaggi mette in scena opinioni divergenti, anche antitetiche sul comportamento da tenere di fronte all’innalzamento della temperatura globale del pianeta. Al lettore, poi, giudicare quale posizione sia migliore.

Sono gli ultimi giorni di agosto quando la Svezia centrale, che è un’unica, immensa foresta, viene devastata da una serie di incendi catastrofici a causa del clima secco: le popolazioni di intere aree fuggono verso sud. Il sistema statale svedese, tra i più ordinati al mondo, va in pezzi: le strade verso Stoccolma si riempiono di veicoli in coda, i trasporti su rotaia si bloccano, un rovinoso black out priva dell’energia elettrica la capitale e le zone circostanti, la gente scende in strada a protestare contro l’inerzia di chi non ha fatto nulla per impedire il disastro. Il tenore della storia è assolutamente drammatico, malgrado in parecchi punti traspaia humour nero. Malgrado la soluzione positiva della vicenda “privata” di alcuni protagonisti, il messaggio è che non esiste soluzione, ci siamo già spinti troppo oltre: non nella possibilità di invertire il riscaldamento, accantonare i combustibili fossili etc, bensì nell’inerzia del capitalismo, che per sua natura continuerà a divorare il pianeta finché rimane economicamente redditizio.

Finlandese è infine Emmi Itäranta, autrice di La memoria dell’acqua (2013). In un futuro non lontano, la terra è un arido paesaggio bruciato dal sole; la protagonista appartiene a una famiglia di custodi della tradizione del tè (il titolo originale significa “il libro del maestro di tè”), che di generazione in generazione si tramandano l’ubicazione di sorgenti segrete d’acqua, ormai scarsissima. L’Unione scandinava, governata da un regime violento e oppressivo, vuole venire in possesso del segreto.

Quasi tutte le letterature mondiali, anche quelle “minori”, che contano cioè su un pubblico linguisticamente ridotto, oggi raccontano il deterioramento della situazione ecologica del pianeta, sotto la spinta dei cambiamenti climatici. Núria Perpinyà, che scrive in catalano, è autrice del recentissimo Diatomea (2022). XXIII secolo, la guerra non esiste più, gli esseri umani sono serviti da robot onnipresenti, la classe politica è esclusivamente femminile; sarebbe una società perfetta, se non fosse per le continue e devastanti inondazioni che colpiscono la Terra. Uno scienziato propone un’idea demagogica e demenziale: eliminare i mari e di conseguenza le nuvole, perché l’umanità ha il diritto di difendersi dalle aggressioni della natura. La trama avventurosa si dipana tra imprenditori corrotti, politici populisti, scienziati illuminati e combattenti della resistenza che lottano per la sopravvivenza del pianeta blu.

E arriviamo finalmente all’Italia.

La situazione non è certamente quella che ci si aspetterebbe, visto il panorama internazionale. La produzione è sorprendentemente scarsa. Bruno Arpaia ha pubblicato nel 2016 Qualcosa, là fuori, romanzo atipico nella sua bibliografia. Come l’intera zona temperata del pianeta, l’Italia è divenuta praticamente inabitabile; l’agricoltura è impossibile, la civiltà organizzata si sfalda. Il protagonista è un professore in pensione che, rimasto vedovo, si unisce a una colonna di trentamila disperati, convinti di pagarsi una possibilità di salvezza emigrando verso la Scandinavia: è infatti intorno al circolo polare l’unica parte d’Europa in cui il clima permette ancora una forma di governo democratica, e la coltivazione di derrate alimentari. I migranti procedono a piedi, come i disperati che nei nostri tempi attraversano il Sahel e poi il Mediterraneo. A capitoli alterni, il romanzo presenta il passato del protagonista, ed è in queste pagine la parte più interessante, perché racconta il lento scivolare del mondo verso il disastro. L’impossibilità di porvi rimedio è insita nel meccanismo decisionale delle democrazie e nella psicologia di  massa: piuttosto che prendere provvedimenti seri, che influirebbero pesantemente sul proprio stile di vita e sul livello di consumi, i popoli si affidano all’irrazionale, alla demagogia di leader senza scrupoli, al messianismo che non solo è incapace di frenare la corsa, ma limita le libertà civili scaricando la colpa della situazione sulle minoranze. In questo modo le vittime della crisi climatica, i migranti, diventano i colpevoli.

Nel relativo disinteresse dell’editoria per il tema che ha fatto seguito al libro di Arpaia, spicca per fortuna una pubblicazione di pochi mesi fa, che dobbiamo alla casa editrice Future Fiction di Francesco Verso: si tratta di I Vegumani (2022) di Clelia Farris, autrice che si è fatta un nome nel fandom degli appassionati di fantascienza. Giustamente pubblicizzato come “il secondo romanzo solarpunk italiano”, è ambientato fra un paio di secoli in Sardegna, dove comunità sempre più spopolate si organizzano per gestire energia e risorse, con la determinazione di non cedere, di non emigrare in quell’indefinito Nord dove ancora le temperature sono tollerabili. Non si tratta di un post-apocalittico, i protagonisti non sono umani impotenti in uno scenario ostile; utilizzano una tecnologia decisamente più avanzata della nostra, sfruttano l’acqua non un’efficienza che oggi neppure riusciamo a immaginare, e soprattutto non sono minacciati da altre comunità ostili, secondo lo stereotipo post-catastrofico. «Gli esseri umani si prendono cura di se stessi e del proprio ambiente» dice la protagonista, «Siamo tutt’uno. E se l’ambiente sta male, interveniamo per aiutarlo. Gli esseri umani non scappano. Questa aridità, questo caldo, fanno parte di noi, siamo noi. Non possiamo strapparceli di dosso come se fossero indumenti scomodi.»

 

Questo elenco non esaurisce naturalmente il panorama della climate fiction, che si sta diffondendo in quasi tutte le letterature nazionali. Di molte opere brevi estere non avremmo notizia, se non fosse per la casa editrice Future Fiction, che traduce e pubblica da diverse lingue e diversi paesi; per esempio, da Cina, America Latina, India, Africa, per arrivare infine alla pubblicazione dell’antologia Meteotopia (2022), che ha come argomento l’ingiustizia climatica come questione morale e politica; contiene racconti di climate fiction da Brasile, India, Messico, Filippine e da diversi paesi africani; come recita la IV di copertina, “tutte le culture emarginate, le generazioni future, gli animali e le piante viventi e in generale coloro che sono esclusi dalle discussioni politiche, dagli eventi del G20 e dalle speculazioni finanziarie.”

Concludendo, si può affermare che la fiction climatica, che in origine era solo uno degli scenari del post-apocalittico, si emancipa dagli stereotipi di genere a mano a mano che entra nella sfera degli interessi letterari di autori e autrici mainstream. Ciò non significa che la science fiction abbia messo da parte l’attenzione per l’ambiente; anzi, potrebbe essere alle porte un recupero della grande carica d’impegno che caratterizzò la “fantascienza sociale” degli anni Settanta, passata poi solo in parte nel cyberpunk.

Gli autori che ancora credono nella funzione civile della cultura non possono voltarsi da un’altra parte. Stante l’attuale situazione del pianeta; nella crisi climatica globale ci giochiamo tutto: democrazia, diritti, uguaglianza.


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Bibliografia della Climate Fiction, di Susanne Leikam (università di Regensburg) e Julya Leida (2017):

BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE CITATE sono indicate le edizioni più recenti

AA.VV., Meteotopia, Future Fiction 2022

Bruno Arpaia, Qualcosa, là fuori, Guanda 2016

Paolo Bacigalupi, La ragazza meccanica (The Windup Girl, 2009), ed. Multiplayer 2014

Paolo Bacigalupi, The water knife (2015), inedito in Italia

Octavia E. Butler, La parabola del seminatore (Parable of the Sower, 1993), Fanucci 2000

Nadia Coste, Rhyzome (2018), inedito in Italia

Pierre Ducrozet, Le grand vertige (2020), inedito in Italia

Emmi Itäranta, La memoria dell’acqua (Teemestarin kirja, 2013), Frassinelli 2015

Alexandra Kleeman, Qualcosa di nuovo sotto il sole (Something new under the sun, 2021), Black Coffee 2022

Omar el Akkad, American War (2017), inedito in Italia

Ian McEwan, Solar (Solar, 2010), Einaudi 2010

Clelia Farris, I vegumani, Future Fiction 2022

Jessie Greengrass, The high house (2021), inedito in Italia

Jean-Marc Ligny, AquaTM (2006), Exodes (2012), Semences (2015), trilogia inedita in Italia

Jens Liljestrand, La foresta brucia sotto i nostri passi (Även om allt tar slut, 2021), Mondadori 2022

Maja Lunde, La storia delle api (Bienes Historie, 2015), La storia dell’acqua (Blå, 2017), Gli ultimi della steppa (Przewalskis häst, 2019), Marsilio 2018/2020

Laurence E. Manning, L’uomo che si destò (The man who awoke, 1933), ed. Nord 1976

Lydia Millet, I figli del diluvio (A children’s bible, 2020), ed. NN, 2021

Kassandra Montag, Terre sommerse (After the flood, 2020), Harper Collins 2020

Jenny Offil, Tempo variabile (Weather, 2020), ed. NN, 2020

Núria Perpinyà, Diatomea (2022), inedito in italiano

Kim Stanley Robinson, Il Ministero per il Futuro (The Ministry for the Future, 2020), Fanucci 2022

Kim Stanley Robinson, New York 2140 (New York 2140, 2017), Fanucci 2017

Kim Stanley Robinson, trilogia “Science in the Capital”: Forty Signs of Rain (2004), Fifty Degrees Below (2005), e Sixty Days and Counting (2007), inediti in Italia

Sherri L. Smith, Orleans (2013), inedito in Italia

Bruce Sterling, Atmosfera letale (Heavy Weather, 1994), Mondadori 2009

Jules Verne, Il mondo sottosopra (Sans dessus dessous, 1889), Mursia 1967

Claire Vaye Watkins, Deserto americano (Gold Fame Citrus, 2015), Neri Pozza 2015

Jeannette Winterson, Gli dei di pietra (The stone gods, 2007), Mondadori 2008

 


[1] Susanne Leikam e Julya Leida, “Cli-Fi in American Studies: a research bibliogaphy”, in American Studies Hournal, 2017 http://www.asjournal.org/62-2017/cli-fi-american-studies-research-bibliography/

[2] Chiunque abbia letto il romanzo si è reso conto che McCarthy non individua l’origine della catastrofe nel cambiamento climatico per azione antropica, ma rimane nel vago; potrebbe essere una guerra nucleare o batteriologica, e qualche critico ha indicato persino l’impatto di un asteroide. L’autore si mantiene comunque nel vago, e comunque tutti gli indizi escludono una crisi climatica.

[2] A proposito di J.G. Ballard, c’è chi considera climate fiction, o antesignana del genere, la sua famosa “tetralogia degli elementi”; a prescindere dal fatto che di solito questi quattro romanzi vengono considerati come un “insieme” soltanto in Italia, è evidente che si tratta di opere di tipo surrealista-postmoderno, in cui il paesaggio deformato da un disastro globale riflette l’inner space dei protagonisti, il loro “spazio interiore” (“luogo di incontro tra pulsioni della psiche umana e immagini e simboli veicolati dai mass media”). Il fatto che l’origine della catastrofe planetaria è attribuita a eventi naturali — l’improvviso aumento della radiazione solare, una mutazione biologica — o inspiegabili — il vento “dal nulla” appunto — esclude la possibilità di inserirli nella climate fiction, con la sola possibile eccezione, forse, di Terra bruciata (1964), dove l’apocalisse dell’umanità è provocata dall’azione di rifiuti industriali sull’evaporazione superficiale degli oceani. Rimane il fatto che anche qui la causa rimane assolutamente in secondo piano rispetto agli effetti narrativi.

[4] Nel senso, rintracciabile soprattutto in lingue estere come lo spagnolo o l’inglese di categoria narrativa che comprende generi con elementi che non esistono nella realtà, nella storia, nella natura o nell’universo.