Autoritratto del filosofo da giovane calciatore

Luciano Aprile, Dove non arrivavano i treni arrivò la serie B. La mia storia nel Matera, Les Flâneurs Edizioni, pp. 164, euro 13,00 stampa

Tra le varianti dell’autobiografia ce n’è una che, in Italia, ha avuto scarso successo: il memoir. Si tratta di una sorta di autobiografia pubblica che racconta una singola esistenza sullo sfondo di fatti ed eventi più grandi. Al memoir appartiene forse questo piccolo libro di Luciano Aprile, docente di filosofia nei licei, per oltre un decennio calciatore professionista nelle serie minori (dalla D alla B), protagonista di un’indimenticata promozione del Matera dalla C1 alla B, che, con profondità intellettuale e sapienza aneddotica, attraversa tutti i luoghi del calcio e di una vita: il campo di allenamento, l’abnegazione e le privazioni, lo spogliatoio, le amicizie e le rivalità, la solitudine e persino il doping.

Attraversando le età della vita – e la storia di un pezzo di Sud –, il testo srotola ricordi che scaturiscono da precise immagini. Al centro di ogni inquadratura c’è sempre un pallone e, intorno, stagioni, incontri, eventi, piccole o grandi catastrofi e brucianti momenti di gloria di provincia. A reggere tutto, lo sforzo di memoria come scopo – il racconto di un fatto, di un volto – e come mezzo: ricostruire il tempo con l’illusione di poterne ricomporre i frammenti, restituendogli una trama (im)possibile. Per perseguire questo sforzo, i quindici capitoli, più due intermezzi e una postfazione sono punteggiati di citazioni davvero preziose: da Stefano Benni a Nietzsche e Roland Barthes, da Proust al calciatore ribelle Paolo Sollier, Si tratta di testi sul calcio, sull’amicizia, sulla narrazione del tempo o sulla memoria che compongono un racconto nel racconto, un’antologia che fornisce ulteriori chiavi di lettura, un doppio fondo letterario che custodisce tesori di parole.

Domina l’usura del tempo e i suoi segni sui corpi e sui volti, le vicende sbrecciate di come eravamo e di cosa siamo stati. Aprile non racconta della Matera miserabile e poverissima dei Sassi, scoperta dagli italiani nel Secondo dopoguerra, né della Matera oleografica divenuta poi meta di scoperta nel nome di un passato sottovalutato. Nell’anno di Matera Capitale Europea della Cultura 2019, questo memoir ci restituisce una città fatta di incontri e relazioni, di calcio polveroso di periferia che sognava ingenuamente in grande: ci parla di un luogo abitato, insomma, non di un simulacro turistico e che, come tutti i luoghi abitati, serba storie in ogni interstizio del tempo.

La narrazione transita fluida dal privato al pubblico e viceversa, dalle vicende più intime e personali alla politica e al costume. Il posto di questo libro di Aprile è nello stesso scaffale anarchico e prezioso dei libri di Giovanni Arpino (Azzurro tenebra, 1977) e Luciano Bianciardi (La vita agra, 1962, o i gustosissimi scritti di calcio di Il fuorigioco mi sta antipatico, 2006), accanto al misconosciuto eppure notevole esperimento di prosa tardo-modernista italiana che fu L’allenatore del leccese Salvatore Bruno (1963) e al dio minore Zdeněk Zeman, raccontato dal barese Giuseppe Sansonna (Due o tre cose che so di lui, 2011). Con il suo intenso lavorio sulla prosa e l’ossessiva cura del lessico che traspare, Aprile ha scritto un autoritratto del filosofo da giovane calciatore che scompagina – ancora una volta! – tutti gli stereotipi che vogliono il pallone come semplice diletto per maschi ottusi, sottolineandone invece il portato ‘mitologico’ così intrinsecamente letterario.