Incipit (ovvero tanto per cominciare)
L’immagine qui accanto rimanda all’accusa infamante del termine “perdigiorno”. Dell’errare senza scopo immediato, incuranti del tempo e dei suoi fini ma attenti tuttavia al suo clima, all’aria che vi tira e a ogni suo sentire, ogni sua tensione). Con scopi affettivi e per nulla o non immediatamente sociali. Personaggi decisi – attenti – a lasciarsi distrarre. Dunque i “fannulloni” di Eichendorff (l’immagine qui sopra è appunto una illustrazione al suo celebre romanzo di iniziazione). Oppure l’errare metropolitano di Walter Benjanin nella sua infanzia berlinese, là dove l’aura dell’arte si consumava nell’esperienza erotica della riproducibilità tecnica e delle sue vetrine e passages. Oppure la celebre Passeggiata di Robert Walser che, in quarta di copertina della sua traduzione Adelphi, già dice tutto: “Lei non crederà assolutamente possibile che in una placida passeggiata del genere io m’imbatta in giganti, abbia l’onore d’incontrare professori, visiti di passata librai e funzionari di banca, discorra con cantanti e con attrici, pranzi con signore intellettuali, vada per boschi, imposti lettere pericolose e mi azzuffi fieramente con sarti perfidi e ironici. Eppure ciò può avvenire, e io credo che in realtà sia avvenuto”.
Con questi rimandi tuttavia non ho inteso fare perno sull’autorità che si è abituati a dare ai testi letterari facendone una esperienza di valore universale, ma mi servono come semplice accesso alla questione che questo articolo intende affrontare: poco importa, almeno qui, avere richiamato la lettura di tanto nobili monumenti del pensiero moderno, essi sono anche nostre esperienze comuni, apprezzate proprio dal lato più luminoso di un “analfabetismo” interiore. Di tali passaggi – colti per modo di dire e di pensare, magari anche per colpa di qualche mio vezzo irriducibile – qui mi servo soltanto per tornare al succo dell’articolo da me pubblicato in questa stessa sede con il drastico e irriverente invito Scuola addio (10 maggio 2021).
Ma avrei potuto principiare in tutt’altro modo (purtroppo o per fortuna alienandomi da subito l’attenzione di non pochi colleghi universitari e più che pochi professionisti) e andare invece direttamente alla fonte di me stesso. Alla fantasia che spesso mi sono fatto sin da principio domandandomi se fosse del tutto vero che il mio mestiere di docente e ricercatore appartenesse al mio tempo di lavoro o non fosse piuttosto il contrario e cioè che l’impegno socialmente dovuto (soltanto socialmente?) al mio lavoro io lo impiegassi piuttosto in quello che – “volgarmente” e insieme “sapienzialmente” (congiunzione ben rara!) – si dice essere il proprio tempo libero. E che quindi il mio fare in aula o nella scrittura/lettura fosse poca cosa rispetto al fare ed esser fatto al di fuori di esse.
Il problema è la DAD?
Forse e per fortuna si sta uscendo dall’emergenza Covid19 ma è molto meglio restarci con la testa per pensare invece a come uscire non solo dai sue specifici effetti sulla nostra salute fisica e sociale ma anche dalla forma mentis in cui abbiamo scoperto di essere imprigionati già prima e in stato di supposta normalità. Per quanto riguarda la scuola lo slogan potrebbe essere questo: non si potrà più tornare nelle aule di prima e senza le culture nonché l’assistenza delle piattaforme digitali.
Le regole dominanti nell’insegnamento scolastico sono fondate sull’attenzione da prestare a ciò che la società ritiene, fa ritenere, necessario alla propria buona sorte. Che si tratti di DAD o di AULA, la normativa vigente su chi insegna e chi è in-segnato (normativa da cui non s’è esentata neppure la stessa DAD, troppo spesso mortificata a tecnica senza senso) è consistita nel non dovere distrarsi dalle mappe disciplinari di un sapere immediatamente finalizzato, strumentale, produttivo. Badate bene: proprio l’automatismo di questo approccio per così dire interiore – in quanto artificialmente interiorizzato, automaticamente ereditato dalla propria formazione e fattosi infine persino autentica vocazione professionale – anche quando sembra arrivare o magari è persino arrivata davvero a sciogliersi e quasi cedere i propri privilegi al discente, finisce tuttavia per fallire. Pregiudicare cioè ogni successiva sua apertura: se sono stati vincolanti i metodi in origine appresi, vissuti, dal maestro nella sua vita di studente, allora di conseguenza altrettanto o poco meno o molto più vincolati resteranno i risultati dei suoi allievi. L’inclusione del giovane apprendista, più spesso dichiarata che praticata, si fa, se non una forma di esclusione più tatticamente raffinata, un ingannevole raggiro (spesso dello stesso maestro su sé medesimo): seduzioni strumentali. Magari si fa capace di più ordine (profitto, nel lessico delle valutazioni finali e magari degli incontri con i genitori).
All’opposto ci sono coloro che oggi, avanzando buone e ponderate ragioni critiche, manifestano una sempre più alta insofferenza nei confronti di tutte o quasi le “prigioni” e “camere di contenzione” da così lungo tempo approntate per educare i giovani, la loro mente e i loro corpi. Ma, detto questo, non ci si lasci troppo ingannare dalla “morbidezza” con cui tali apparati umani e professionali, pur così diversamente istruiti e ispirati rispetto al passato, si sono adattati – per passione ma anche per necessità – a una società per molti aspetti sempre più permissiva quanto a usi e costumi della vita quotidiana, con tutti i suoi nuovi consumi, le loro seduzioni e deviazioni. Si spiega così che questi stessi “contestatori” dei vecchi regimi formativi siano in buona parte, e persino con più energia, gli stessi che per cieco istinto luddista sentono di dovere sempre più contrastare e denunciare l’opera di distrazione e inquinamento mentale messa in atto, ad ogni salto di qualità dell’abitare, sui giovani allontanandoli, sino a separarli, dalle forme e contenuti delle più tradizionali istituzioni della società civile. E’ accaduto sotto il dominio dei media televisivi e accade ora contro i social, ritenuti assai più pericolosi per la loro temuta pervasività senza più possibili argini e cornici. Senza più protezione da ciò che monta dal basso dell’abitare versus le regole dell’ordine e dis/ordine costituito. Contro interessi e leggi pattuite politicamente: la politica è appunto la sfera che aspira a governare l’abitare entrando in conflitto con i suoi “errori”, i suoi abbandoni, le sue devianze. Le sue rivolte. O anche mediandole nei limiti che esse ritengono possibili e utilmente praticabili. Tuttavia, lo abbiamo imparato appunto a scuola, la politica sta nella sovrana pancia del Leviatano.
Ma cosa sta riuscendo a dire la politica di fronte ad una questione scolastica arrivata ad essere finalmente nazionale soltanto grazie ad un virus e di conseguenza affrontata con una logica elementare, quella vaccinale? Scuole costrette a chiudere come ristoranti e piscine? In retrovia – come da sempre – rispetto a commerci e fabbriche che non si possono fermare. Più che sapere elaborare l’evento – progettarlo – le culture politiche hanno subito il gran rumore di contrastanti paure sul futuro. O meglio: il timore che il passato potesse sgretolare il presente. Le rendite andassero disperse. E che la salute sino ad oggi “perfetta” dei giovani si ammalasse a causa di invasori occulti o alieni. Chissà perché mi viene in mente l’inquietante immagine di un noto film di fantascienza della fine degli anni Cinquanta, Il villaggio dei dannati, in cui tutto il male di una comunità nasceva non dal suo interno, scuola e famiglia, ma da “fuori della terra”. Come oggi si dice degli algoritmi.
Per concludere su questo: il dibattito – scatenatosi sin dall’inizio senza essere pubblicamente recepito come si sarebbe dovuto – s’è polarizzato sulla necessità della scuola vissuta in aula rispetto alla qualità dell’insegnamento a distanza, assunto per forza maggiore come farmaco o addirittura palliativo delle sofferenze prodotte dalla sua assenza. Se smanettate su fb andate a leggervi un post pubblicato sul suo diario da Ciro Ascione, che è un insegnante scolastico formatosi grazie alle culture di rete: sarebbe stato bello che tra chi s’è trovato a pensare il “che fare” della scuola nelle stanze del Ministero e del Parlamento ci fosse stato almeno qualcuno che lo ha già fatto di suo da tempo e in prima persona: per esperienza vissuta. Sin da giovane.
“Con la DAD i ragazzi restano indietro” In parte è vero, non prendiamoci in giro. Soprattutto quando si ritrovano come docenti persone che fin o all’anno scorso si vantavano del proprio analfabetismo digitale ed esibivano come un vezzo l’amore per la penna stilografica, il rifiuto dell’e-book e la retorica sull’odore della carta (anche se su questa carta c’era stampato qualcosa di Bruno Vespa). Al di là dell’inadeguatezza di alcuni insegnanti, e dell’urgenza di una loro riqualificazione professionale, c’è da dire che i ragazzi più capaci e scrupolosi lavorano benissimo anche a distanza. Poi ci sono quelli che vanno male in DAD come a scuola. Si tratta di quegli stessi ragazzi ai quali, con la scuola in presenza, vengono certificate competenze inesistenti giusto perché a fine maggio hanno fatto un temino di mezza pagina o hanno ripetuto a pappagallo un paragrafo dal manuale. Certo, se studiano male la colpa non è loro ma dei genitori sciagurati. Ma riaprire le scuole solo per semplificare la vita di questi genitori è l’ennesima prova che siamo in ciucciocrazia.
La politica e la scuola
Il dettato accolto di comune impeto dalla politica e dalle istituzioni scolastiche è stato invece tornare in aula a prezzo di ogni rischio (e i rischi – lo sappiamo – sono stati molti: studenti e genitori similmente ai lavoratori di ogni impresa, stretti nella tenaglia tra bisogni economico-politici e desideri personali). La catastrofe si è guardata e si continua a guardare con lo stesso occhio dei regimi di senso ad essa precedenti, perdendo così l’unico vantaggio che una catastrofe può apportare per rinnovare il sistema di appartenenze sociali tra loro in conflitto in una direzione diversa da quella tradizionale. Potremmo dire che questo lo si sta facendo al di sotto della stessa natura del pensiero moderno progressista che in non pochi dei suoi passaggi deve il meglio delle sue forme di potere alla capacità di rinnovarsi in virtù delle sue crisi più violente.
Si vuole tornare in aula quando, indipendentemente da ogni pandemia, si sarebbe dovuto abbandonarla già da tempo sul piano dei contenuti e dei mezzi che essa ha rappresentato e praticato sino all’avvento della società delle reti. Si vuole far vincere la necessità della scuola così come è invece che fare finalmente prevalere la necessità sempre più urgente di inventarne un’altra. So bene che nel cuore di questa questione implodono tutti i problemi derivanti dall’abbandono in cui famiglie, studenti e insegnati sono stati gettati con sempre crescente cecità dalle istituzioni demandate a risolverli. Ma sappiamo altrettanto bene quanto tra queste inadempienze ci siano non solo vecchie carenze relative a problemi ancora più vecchi (investimenti adeguati sul mattone e sul corpo docente, come minimo), ma anche vere e proprie superstizioni nei confronti dei linguaggi digitali, credenze tanto più paradossali quanto più tali linguaggi vengono ormai sempre più innestati su e dalle stesse forme di vita della società.
Dunque, perché la politica sembra di nuovo divorziare dalla natura e dagli scopi della scuola? Ricordo un vecchio articolo di Massimo Cacciari, uscito con il titolo “Dalla scuola si vede il vuoto della politica” sull’Espresso del 15/5/2015. Passa il tempo ma questo articolo di Cacciari – grande filosofo sempre pronto a sporcarsi le mani con la società reale – resta attuale e lo è anche perché attesta una linea di pensiero non conformista che continua ad essere criticamente “estranea” al rapporto tra società e formazione così come perseguito in tutti questi decenni sul piano dei contenuti ..
Eppure c’è un punto su cui a me pare non si possa essere in accordo con lo “spirito” che anima la sua critica: “Non esiste, invece, scuola ‘neutrale’. Un processo formativo funziona se è guidato da una idea di quello che un popolo, un Paese vuole essere. Non esiste scuola come mera trasmissione di saperi. Una vera scuola non ‘informa’, ma comunica un futuro. L’educazione diviene una praticaccia se non esprime una ‘causa finale’”. Ecco: non credo che la formazione – con le sue pratiche – possa fondarsi su un metodo come questo in quanto ad una soggettività o assenza di soggettività, ne sostituisce e impone un’altra. Che continua ad essere identitaria. Il nodo tra scuola e politica a me non sembra possa funzionare – o meglio non possa più essere “pensato” come implicitamente mi pare sostenesse e penso ancora sostenga Cacciari – a meno che non si voglia continuare sul solco della soggettività moderna, laddove il dispositivo dell’aula, collocata che sia sul territorio urbano o, come adesso, persino dentro le reti digitali, ha funzionato storicamente e pretende di continuare a funzionare come istituzione votata all’educazione della persona, ma nel senso del suo progressivo trascinamento nel ruolo al quale la società la destina. Non c’è qui una idea di scuola che introduce, prepara, alla politica ma una politica che edifica le mura materiali e virtuali in cui addestrare la persona ad essere suddito.
Cacciari, proprio lamentandone l’assenza, sembra chiedere la realizzazione di qualcosa che già c’è. La scuola mette a lavoro immediatamente la persona – sin dal suo primo giorno – affinché apprenda i contenuti, mezzi e valori, dunque i ruoli, che essa, la persona, è chiamata a svolgere nella società come suo soggetto attivo. La scuola agisce come piattaforma in cui il sistema chiede immediata partecipazione alla persona. In questo senso la scuola non è luogo di elaborazione culturale per la persona, un “che fare” a suo vantaggio, ma diretta manipolazione della persona stessa e dei contenuti di cui si deve fare espressione.
La scuola, così come resta ancora oggi, non è un medium innocente, e non è un medium della persona: è un medium della società. Se funziona male è responsabilità della società o meglio di quanti la comandano. Di quanti non sanno usarla al meglio ma la usano al peggio. E tuttavia in un caso o nell’altro, nella scuola alla persona non si da modo di pensare il meglio e il peggio del proprio destino.
Il culto del libro
Il fatto è che, a fare da resistenza alla informatizzazione di famiglie, insegnanti e aule non c’è solo la specifica o speciosa arretratezza delle istituzioni e degli apparati amministrativi e politici che se ne dovrebbero, anzi avrebbero dovuto, farsene carico, ma ci sono nodi teorici di molto preesistenti. Primo tra tutti il culto del libro in quanto piattaforma comunicativa e formativa ritenuta al di sopra di ogni altra. Una cultura così convintamente umanista come quella storicamente influente sulla scuola e di conseguenza in tutto ostinatamente contraria ai valori della società industriale di massa e dunque dei prodotti di consumo da essa inoculati nella persona, ha lasciato che a governare insegnamento e apprendimento fosse l’industria del libro scolastico. Roberto Maragliano – andate a vedere anche il suo diario su fb – ne ha fatto una questione da anni una sua questione personale.
La questione è infatti molto complessa, lo sappiamo bene. Ma qui vi propongo una breve citazione di un autore non poco noto e accademicamente riconosciuto che ne tratta un aspetto non irrilevante:
“Quando noi leggiamo, un altro pensa al posto nostro: noi ripetiamo semplicemente il suo processo mentale (…) Pertanto nella lettura la maggior parte del lavoro del pensare ci è levata. Da ciò deriva il tangibile sollievo, quando passiamo dal compito delle nostre stesse riflessioni alla lettura. Ma veramente la nostra testa, durante la lettura, altro non è che il teatro di pensieri estranei. Quando questi infine dileguano, cosa resta? Da qui deriva che chi legge proprio molto e durante quasi l’intero giorno, si rilassa frattanto col passatempo dell’assenza del pensiero, e lentamente smarrisce la facoltà del pensare da sé. Proprio questo è il caso di parecchi dotti: si sono rimbecilliti col leggere”.
L’irriverente autore coglie qui un punto fondamentale: la lettura di un libro per valere qualcosa ha bisogno di essere tradotta in un ambiente, vissuta fuori delle sue pagine: questo avrebbe dovuto saper fare la scuola mettendolo in scena nell’aula, facendolo vivere dai suoi attori, invece che farne oggetto di apprendimento mnemonico e d’esame. E questo per le stesse ragioni dovrebbe fare l’aula virtuale (forse – secondo me certamente – godendo di qualche mezzo tecnico in più per riuscirci, date le sue capacità ipertestuali di espansione spazio-temporale). Comunque il problema è in sé esattamente lo stesso. Ma sapete chi è l’autore di un così selvaggio deprezzamento del rapporto tra cultura e lettura, tra dotti e non-dotti? Per rintracciarlo dobbiamo risalire sino a metà dell’ottocento: Arthur Schopenhauer (in Parerga e paralipomena).
Non è che autori come questi siano in tutto assenti nel pensiero formativo di classi scolastiche, quelle prossime alla maturità, ma sono alcune loro schegge teoriche – per non dire intere visioni critiche – ad essere mancate in classi inferiori e, quando o dove divenute presenti, scomparire in un lampo (oppure essere semplicemente ridotte a letteratura e arte). Sono queste invece le tesi e visioni culturali alte che più potrebbero smentire metodi e i fini fondati sulla scrittura. E del resto, anche ricorrendo a strumenti poderosi di informazione come Wikipedia, a prevalere sono sintesi di autori e testi concepite nella logica enciclopedica, logica che, ridotta e riassunta, è appunto a monte dell’idea di insegnamento dominante. Solo navigando nelle conversazioni dei social, nei loro sottosuoli, se ne trova qualche richiamo e attualizzazione. Insieme purtroppo, al livore di chi si fa solerte interprete dei pregiudizi che lo hanno asservito a una sorta di inossidabile e ignorante snobismo culturale. Ma dove, se non a scuola? O magari per iniziativa di qualche falso amico digitale.
Tuttavia, in conclusione è bene tornare alle riflessioni più ponderate di Roberto Maragliano e Mario Pireddu su questa stessa sede. Comunque credo proprio che tutti e tre si sia da tempo convinti che la consueta reazione, pubblica e privata, con cui ci si rivolge all’istintivo e ostinato fannullare dei giovani andrebbe rivolto innanzitutto al non far nulla degli adulti che pretendono di averne cura. Di sapere come farsene carico.