Sergio Bologna / Attraverso una inedita storia fino al presente

Sergio Bologna, Ritorno a Trieste. Scritti over 80, 2017-2019, Asterios, pp.324, euro 25

Diviso in cinque parti, il libro di Sergio Bologna, pur toccando diversi argomenti (dal lavoro, all’identità triestina, alla logistica), mantiene un filo unitario che ha origine nella soggettività “militante” dello studioso, capace di passare da un settore di ricerca all’altro fornendo letture sempre innovative.

Essere militante, non significa essere ideologici, ma tentare di dare risposte, per esempio, alle domande che oggi pone la realtà del mercato del lavoro. Un lavoro che non può più essere analizzato con le vecchie categorie dell’operaismo, perché i nuovi soggetti sono free lance o partite IVA, spesso precari, sottopagati, individualisti per costrizione, non possono fare scioperi o vertenze di massa. Ma sono pur sempre lavoratori che hanno bisogno di ritrovare “conflitto e negoziazione”, superando l’idea dell’affermazione individuale e competitiva.

Per questo Sergio Bologna è fondatore di Associazione Consulenti Terziario Avanzato (ACTA), un’associazione di free lance affiliata alla Freelancers Union che, negli Stati Uniti, organizza 300 mila lavoratori e ha filiali in 11 paesi europei.

Molto stimolante è la parte dedicata alle lotte operaie tra anni Sessanta e Settanta Bologna ne è un autorevole studioso, avendo fatto pare della redazione dei Quaderni Rossi nel 1961, fondato la rivista Classe Operaia nel 1964 e nel 1973 Primo Maggio; luoghi dove l’esperienza di lotta di quegli anni erano momenti di riflessione e di messa a punto di strumenti teorici adeguati.

Illuminante, in proposito, è la nuova cronologia che l’autore propone del biennio 1968/1969 che non furono un’esplosione spontanea di conflittualità, ma giunsero dopo le lotte dei 70.000 elettromeccanici del 1960, e dopo alcuni contratti poco soddisfacenti siglati nel 1966/67, videro una nuova combattività femminile e il coinvolgimento del territorio intorno alla fabbrica.

Gli operai si ribellarono a una condizione lavorativa, che negli anni Cinquanta era stata particolarmente umiliante, a ritmi insostenibili, a paghe basse. Le parole d’ordine furono l’egualitarismo nelle rivendicazioni salariali, il riconoscimento della dignità del lavoro, il rifiuto dei ritmi imposti dal padrone, la salvaguardia delle condizioni di salute, dentro e fuori dagli stabilimenti, e il totale ribaltamento del sapere disciplinare. Cambiò la medicina – e non solo la psichiatria – cambiò la scuola e la didattica, e nacquero le 150 ore, che permisero al lavoratore di riflettere sulla propria pratica, utilizzando strumenti culturali adeguati, cambiò totalmente la visione neutrale e obiettiva del sapere e si comprese il legame che anche le scienze più “dure” avevano con le condizioni di produzione.

Il ciclo di lotta, secondo Bologna, durò oltre vent’anni anni, dai primissimi anni Sessanta alla metà degli anni Ottanta, con la sconfitta nel referendum sulla scala mobile. Il PCI non accettò mai, neppure come traguardo da perseguire, la parola d’ordine del salario come “variabile indipendente” e si adattò, con la svolta dell’EUR, alla logica della compatibilità economica in materia salariale.

Il padronato reagì nel settore privato con la delocalizzazione e la creazione di piccoli distretti industriali dipendenti dalla grande fabbrica, con l’uso assistenziale della Cassa Integrazione senza investimenti tecnologici, con il controllo politico più stringente e l’allontanamento dei manager maggiormente preparati nell’industria pubblica, con l’inizio della finanziarizzazione alla ricerca del profitto senza produzione. La crisi economica degli anni 2000 ha in quelle scelte le sue radici.

A dare il colpo di grazia sull’analisi di quegli anni c’è stata la martellante e ideologica definizione degli anni Settanta come anni di piombo, anni in cui la sola dimensione politica sembra essere stata quella della lotta armata e del terrorismo. La letteratura sulle stragi, sui depistaggi, sulla strategia della tensione, sul delitto Moro, pur annoverando volumi seri e importanti, ha messo sullo sfondo lo studio di quegli anni e delle contraddizioni che lì sono nate e che da allora non sono state risolte. Senza riconnettere la realtà contemporanea con quel passato demonizzato sarà difficile recuperare la consapevolezza del profondo legame che unisce in un unico sistema condizioni di lavoro, rapporti sociali e affettivi, cultura e arte

Sergio Bologna è testimone attento e storico della realtà triestina. Il suo lavoro decostruisce l’immaginario di Trieste come città da sempre multietnica e multireligiosa. Le cose sono più complesse. È alla fine del Settecento che le famiglie ebree, ortodosse, calviniste che vivono in città, grazie al porto, costruiscono la loro ricchezza attraverso il capitale investito nelle assicurazioni. A metà del 1800, nel mezzo della grande rivoluzione industriale europea, le élite economiche locali dimostrano invece chiusura e disprezzo per le grandi conquiste sociali che contemporaneamente vengono strappate dalle organizzazioni operaie in Europa. L’urbanizzazione in città diventa selvaggia e non si costruiscono case popolari, se non dopo l’imposizione che arriva da Vienna nei primi anni del Novecento, la distribuzione dell’acqua viene lasciata in mano ai privati, che la fanno pagare a un prezzo altissimo, non ammodernano le condutture e fanno scoppiare epidemie di tifo, provocando una mortalità infantile elevatissima, si guarda con sospetto l’allargamento del diritto di voto che potrebbe riservare maggiori spazi alla componente slava. La rivendicazione sempre più accesa della propria identità nazionale serve a impedire le conquiste sociali che la città, in crescita per il flusso immigratorio, richiedeva e che Vienna aveva concesso con le assicurazioni obbligatorie contro le malattie e gli infortuni sul lavoro.

Cosmopolita è invece la classe operaia che, superando le divisioni nazionali nelle grandi fabbriche, dove operai di diverse nazionalità lavorano assieme, si dota di strumenti mutualistici come le cooperative di consumo e le diverse associazioni in cui si discute non solo di salari ma di cultura. Il fascismo farà il resto isolando la città dai flussi culturali europei più importanti. Si capisce così il disprezzo che le truppe jugoslave hanno suscitato all’entrata a Trieste nel maggio 1945. Definiti straccioni e paragonati con le truppe neozelandesi pulite e civili, quel giudizio mette in evidenza il pregiudizio che esisteva già da un secolo e che Bologna trova descritto nel libro di Pier Antonio Quarantotti Gambini Primavera a Trieste. Folgorante la considerazione che Bologna fa sulle differenze di classe, molto più radicate di quelle nazionali, quando afferma che “Potrà apparire paradossale, ma sta di fatto che la mia famiglia di patrioti fascisti all’arrivo delle truppe di Tito ha subito un trauma meno devastante di quello che sembra aver subito la famiglia di patrioti antifascisti di Quarantotti Gambini”.

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