Come la penserebbero oggi i viaggiatori umanistici, al di qua e a Nordest dei Balcani? E come le suggestioni dell’antico, Veneri in prima fila, potrebbero disgregare le sentenze malevole contro il canone della bellezza e dell’incanto trasmigranti fra sogno artistico e oblio della ragione? Non sembra che fra i due capi della fune del pensiero vi sia tuttora trasmissione ammirevole e stima per l’educazione artistica ai contemporanei. La “Civiltà delle Veneri” potrebbe essere pronta a sganciare bombe tattiche su pitture rupestri e sul marmo oggi bianchissimo delle dee formose – il Grand Tour trasformato in spostamenti d’aria deflagranti e micidiali. E poi? Nessun pellegrino ad avvolgersi di preziose memorie, e ai superstiti polvere bianco-grigia più o meno radioattiva da ingoiare, un fallout per cenciosi aggirantisi nella fine reale.
Si spera che adorabili precog “vedano” altro nell’imminente futuro, e che quel che è sul punto di farsi reale narri ancora d’antiche vestigia e di statuarie greco-romane: le grandi nature artistiche, dunque, da Attilio Brilli presentate con la consueta malia viaggiatrice intorno alle bellezze “perdute e ritrovate”.
Bellezze dissepolte, scrive questo ineffabile viaggiatore, corteggiate dagli imperialismi in ogni epoca, talmente nude da sproporzionare legami fra governanti e cortigiane, con posture e gesti che hanno sempre messo a repentaglio le diplomazie. E innumerevoli “apostoli del buon gusto” – le copie in gesso – sparse in nazioni lontanissime fra loro. Le suggestioni arrivano da più parti, fra antichità e neoclassicismo Brilli vede altalenare il pudore in artisti e mandatari. Venere è un “totem” trasferito in ogni tipo di immaginario artistico e letterario, più o meno nostalgico a seconda dei periodi. E non si contano le molteplici creature femminili, dagli abissi millenari all’occhio lubrico di Leopold Bloom (Joyce permettendo), dalle sembianze della femme fatale alle deformazioni di Dalì e Warhol. Bisogna essere grati a un libro che dispiega in poco più di 150 pagine le innumerevoli posture di grazia, dolcezza e volontà rapinosa trasfuse nelle dee, tanto che salire al Monte di Venere spiega sia le forze dei cavalieri sia i desideri segreti degli avventurieri. E in questo caso, facile pensare come le nostre Veneri quotidiane si siano rifugiate altrove cedendo il compito nostalgico-seduttivo a ben più ignare Veneri casalinghe.
Le tematiche svolte nei singoli capitoli sono variatissime: il racconto s’allarga fra ritrovamenti fortunosi e toelette non sempre adeguate, si passa dai miti shelleyani a lascivie di tenore fantastico e occulto: la leggenda di Tannhäuser ci lascia timorosi ma Brilli sa come veicolare i passi verso regioni dove la nostra cultura può farsi fenice e riprendersi dall’ebbrezza. “Il bello è difficile”, scriveva Pound, ma alimenta i sogni ricorrenti dal Rinascimento (sempre Brilli) al Modernismo e oltre. La percezione s’eccita con miti probabilmente non felici d’essere stati trasformati in icone, però gli uomini hanno sempre desiderato arredi ossessivi nelle sale del trono e nei tinelli, ed eluso le verità classiche a scapito delle divinità certo possessive, certo incantatrici pur essendo spesso mutile. Ma lo sappiamo, Venere riemerge sempre dalle spume marine e da lingue antiche. È storia incompiuta, e forse un prossimo precog avrà la facoltà di raccontarci la proliferazione delle Veneri nel nostro futuro.