Astrid Sodomka / Bassa “alta borghesia”

Astrid Sodomka, L’intruso, tr. di Manuela Vidale, Edizioni le Assassine, pp. 456, euro 24,00 stampa

Edizioni le Assassine, recentemente premiate al Festival Giallo Garda 2024 per il miglior romanzo tradotto e con il premio speciale Giallo d’autore, si occupa di letteratura gialla al femminile con due interessanti collane. Quella denominata “Oltreconfine”, propone scrittrici contemporanee di tutto il mondo unite dalla stessa passione per il genere giallo, ma diverse nella loro interpretazione: con le loro storie, ambientate in realtà anche lontane dalle nostre, veniamo a contatto con diversi ambienti sociali e culturali. L’altra collana è “Vintage”, rivolta al passato, alla (ri)scoperta di scrittrici che, a vario titolo, sono state pioniere della letteratura gialla; alcune ormai cadute nell’oblio, altre tuttora lette, le loro opere sono presentate in chiave moderna, senza cancellare del tutto la polvere del tempo che le rende ancora più preziose.

L’Intruso di Astrid Sodomka, autrice viennese del 1982, rientra nella prima collana. Ambientato nel quartiere borghese di Josefstadt a Vienna, il romanzo si apre con la scoperta del corpo di un giovane rifugiato afghano, Amir Moghaddam, pugnalato a morte sulla terrazza di un’elegante casa dove si sta preparando una festa di compleanno per bambini. La vittima, che avrebbe dovuto essere di supporto alla festa, era volontaria nel costoso asilo parentale frequentato dal festeggiato e dai suoi piccoli amici, la cui retta è il quadruplo di quella di un semplice asilo comunale.

La scrittrice mette subito in chiaro in quale ambiente sociale ci troviamo, grazie a un brevissimo ma illuminante dialogo tra due madri di fronte alla macabra scoperta: «Se la polizia viene adesso, addio festa» «E cosa diremo ai bambini?» «Appunto». Stanno entrambe di fronte al cadavere e decidono che basterà chiamare la polizia tra una o due ore, quando gli ospiti se ne saranno andati. Tanto il volontario di See the World ormai è morto.”

La storia ruota attorno a un microcosmo rappresentato dall’asilo parentale in cui, a fronte di un pugno di bambini, troviamo un affollamento di adulti impegnati nei ruoli più disparati, descritti con non poca ironia: presidentessa, vicepresidentessa, responsabile nuovi genitori, responsabile relazioni, tesoriere, responsabile antincendio, responsabile sostenibilità, responsabile acquisti, responsabile concept, responsabile lavanderia, responsabile riparazioni nonché coordinatrice pulizie e responsabile protocollo, responsabile riparazioni II, vicesegretaria, responsabile registri, responsabile volontari dell’asilo, responsabile personale e vicetesoriere, responsabile regali e, per fortuna, anche tre educatrici. Sembrerebbe una realtà borghese, ecologista, anche progressista e inclusiva, ma ben presto, grazie alle indagini portate avanti dall’ispettore Hansmann e dalla sua squadra, verrà non solo smascherato il colpevole dell’omicidio, ma capiremo anche che quasi tutti coloro che sono entrati in contatto con la vittima, hanno qualcosa da nascondere e che dietro l’apparente facciata di solidarietà e tolleranza di una società che cerca di mantenere la sua immagine sempre immacolata, si celano tensioni razziali, divisioni sociali e pregiudizi.

È brava la scrittrice a descrivere ambienti e personaggi. Sono un po’ tutti messi alla berlina: la vice presidentessa con la sua prepotente ossessione per la perfezione e il controllo; il capo degli investigatori che pare essere uno di quei tipi che in un banale gioco da tavolo “dimenticano” continuamente il colore della loro pedina e prendono quella che è più avanti e non si dimostrano neppure ragionevoli quando viene loro spiegato com’erano stati assegnati i colori all’inizio; un padre per cui la sicurezza viene prima di tutto, che si sente così autorizzato a installare un localizzatore GPS nello smartwatch di cui ha precocemente dotato il figlio; una madre blogger, felice del fatto che una foto fatta da lei, di una vecchia credenza con una Barbie, un pupazzo di neve in argilla, una statuetta di una donna grassa in costume da bagno e una bambina, piaccia a 6.582 persone alcune delle quali si perdono in un profluvio di commenti, ricchi più di emoticon che di contenuti.

L’incursione nel mondo dei social media è molto interessante: dopo la morte di Amir, una foto del suo cadavere viene diffusa su internet e, nel giro di poco tempo, gruppi di estrema destra se ne impossessano in qualche modo, iniziando a sfruttare l’omicidio per alimentare la retorica anti-rifugiati. La rapidità e la facilità con cui sentimenti d’odio, rabbia, paura, idee razziste possono essere alimentate in rete, è un tema che rende molto attuale questo romanzo.

Il libro, oltre ad avere un solido intreccio “giallo” – non mancano infatti indagini, interrogatori, ricerca di prove – pare un invito a riflettere profondamente su molti argomenti che ci riguardano da vicino: l’integrazione e i contrasti sociali che ne derivano; la xenofobia; la fragilità delle apparenze; il rifiuto della complessità a fronte dei molti strati socioculturali che compongono attualmente le nostre società; il modo in cui media e politica possono plasmare la verità per i propri scopi, strumentalizzando anche tragedie personali; le nostre contraddizioni e, soprattutto, l’ipocrisia con cui a volte ci relazioniamo con i rifugiati. “Un po’ di tragicità non dispiace, ma non la realtà nuda con tutta la sua complessità”.

Leggendo questo romanzo mi venivano spesso alla mente le immagini di un film francese della regista Alexandra Leclère: Benvenuti… ma non troppo. È una commedia di una decina di anni fa, in cui si ipotizza che, durante un inverno eccezionalmente rigido e di fronte alla pressione popolare, il governo francese decida di gestire l’emergenza abitativa imponendo ai proprietari di appartamenti molto grandi di dare ospitalità ai poveri: connazionali senza lavoro, e tanti immigrati. In particolare, vedremo le vicende di due famiglie: una “di sinistra” provare prima a eludere il provvedimento cercando una raccomandazione ad hoc e poi, non riuscendo a evitare gli ospiti, finire col relegarli in soffitta; una “di destra” riportare a casa la vecchia mamma abbandonata da anni in un ospizio e ospitare la storica domestica di colore per dimostrare di non avere spazio a sufficienza per altre persone – insomma, entrambe impegnatissime a evitare intrusi fra le mura di casa. Il film è un leggero ritratto del rapporto tra società opulenta e soggetti disagiati, ignorati e discriminati, che ben si sposa con le osservazioni di Sodomka che, forse, potremo presto assaporare in TV, comodamente seduti sul divano di casa, con la porta ben chiusa a evitare intrusi, dal momento che l’autrice pare stia lavorando a una trasposizione televisiva di questo suo pungente romanzo.