Quali sono i limiti della prosa non narrativa? Quando si può parlare di “prosa poetica”, ad esempio? Quando, invece, di “prosa d’autore” – posto che tale riferimento all’autorialità (come sinonimo, per nulla preciso, di stile) possa essere un discrimine? A tutte queste domande – e a nessuna, verrebbe da dire, parafrasando il titolo – risponde il libro di Aslı Erdoğan del 2005, recentemente pubblicato da Tamu nella traduzione di Giulia Ansaldo, che ha curato per Garzanti e Keller anche le altre pubblicazioni italiane della scrittrice. Tutte le risposte e nessuna, allora: in tal modo, si percepisce meglio, e in modo più acuto, il pericolo che la scrittrice turca, dall’esilio in Germania, si è spesso trovata a dover fronteggiare; si tratta del pericolo della massima incertezza e paura, che è proprio, in prima istanza, della scrittura stessa, e che quindi non si può esclusivamente riassumere nei motivi politici della lontananza dell’autrice dalla Turchia dell’omonimo, da lei avversato, presidente.
In Tutte le ore e nessuna, infatti, si succedono interminabili notti passate davanti alla pagina bianca (che diventa talvolta asfissiante come le pareti di una cella), pagina che viene poi a riempirsi di parole e immagini via via più potenti: spesso sono fantasmi, però mai allucinazioni, in virtù della grande lucidità dell’analisi e dell’autoanalisi che continuamente vi traspare. «Ascoltando passi di fantasmi lontani…», scrive infatti Erdoğan, «Traballando, fermandomi, inciampando su me stessa e ruzzolando… da un’assenza a un’altra… Nominando ognuna, tracciandone il volto, formandone il corpo… Aprire come un chirurgo la pelle dell’esistenza, per estrarne ciò che è dentro, al più interno, l’embrione. Per incidere l’ultima assoluta immagine sugli specchi, sui muri».
Nella sezione “Il visitatore del mattino” il fantasma acquisisce una fisionomia più precisa: è il passato, che si moltiplica di continuo nelle voci dei morti, e nella loro ossessiva indicazione del fallimento della letteratura davanti all’esilio e, appunto, alla morte: «Ovunque andassi nel mondo, mi trovavano. I morti mi scrivevano, mi raccontavano qualcosa che ormai non posso più raccontare, mi richiamavano in un luogo in cui prima o poi farà ritorno. Mi mettevano in guardia di fronte alla vita in nome della quale ero fuggita dal mio proprio racconto». Ammonimento che talvolta prende le vesti dell’ingiunzione patriarcale – indissolubilmente legata all’oppressione politica denunciata da Erdoğan nella sua condizione di esilio – come succede in questa citazione diretta da L’assunzione di farabutti e mascalzoni della poetessa e scrittrice canadese Elizabeth Smart (1913-1986): «Ma dov’è che vuoi andare, donna che ti lamenti della tua condizione, dove vuoi arrivare, cosa vuoi ottenere, cosa vuoi esprimere? Non puoi ritenerti ampiamente soddisfatta di tale dolore, di tali bambini, di tale equilibrio?». La risposta di Erdoğan, come quella di Smart, è negativa, ma non a cuor leggero, come si è visto: è costantemente forgiata nel dolore, e più precisamente, forse, nella difficoltà di tenere insieme le dimensioni fisica e metafisica dell’esilio, insieme alla qualità politica, sociosimbolica ed esistenziale del loro incontro in una singola biografia che si fa, anche e in modo preponderante, scrittura.
Non mancano, per contro, momenti in cui la resistenza si fa più forte, e brilla la possibilità di una strenua solidarietà sotterranea, come nel capitoletto “Il dottor Benefate e la sua squadra” – rielaborazione, peraltro, di un aneddoto contenuto nel Golem di Gustav Meyrink: «Quella notte fu presa una decisione: chiunque facesse parte della squadra del Dr. Benefate avrebbe protetto gli altri. Ognuno avrebbe serbato un cucchiaio di minestra per gli amici. Avrebbe offerto una moneta agli squattrinati, riparo ai fuggitivi. E ogni notte, prima di accendersi l’ultima sigaretta, proprio come faceva il dottore, l’avrebbero bagnata in cima, per far vivere il suo ricordo». A tal proposito, la sezione in cui si trova questo capitoletto, intitolata “Lettere d’addio”, risulta prevalentemente composta da un assemblaggio di testi ideato per un’esposizione al Centro culturale turco di Diyarbakır – traccia di una qualità visiva della scrittura di Erdoğan che ne è forse la sintesi ultima, in questa lotta continua con la scrittura e le sue più diverse valenze.
Nel timore, tuttavia, che si abbia a che fare con «l’ultima assoluta immagine sugli specchi, sui muri», anche questa possibile sintesi contiene un’apertura, ad esempio nella nuova traduzione e circolazione del testo che si può apprezzare nel recente documentario In tutte le ore e nessuna (2023) dei cineasti italiani Davide Minotti e Valeria Marcapillo. Come a dire, la pagina è bianca come possono essere bianche le quattro pareti di una cella, ma una di queste ha la qualità vivida e vitale della quarta parete.