Teresa Ciabatti, La più amata, Mondadori, pp. 218, euro 15,30 stampa, euro 9,99 ebook
Paolo Cognetti, Le otto montagne, Einaudi, pp. 199, euro 15,73 stampa, euro 9,99 ebook
Confesso di aver letto il vincitore e il perdente del Premio Strega per motivi scandalosamente estrinseci. La Ciabatti la lessi ai tempi de Il mio paradiso è deserto, la sua opera precedente, per via degli scambi di battute su FB in puro stile commedia all’italiana con un altro scrittore; e siccome mi piacque quel romanzo ho voluto provare anche il più recente. Cognetti l’ho letto perché – mi avevano detto – parlava di montagne. Quindi le polemiche relative al ben noto premio lasciamole pure da parte. Come pure il fatto che – data la comune proprietà di entrambe le case editrici in lizza – se scontro vi fu, fu domestico.
Parliamo invece dei libri: mi viene da rilevare, forse semplificando anche troppo, che se da un lato La più amata ha diversi difetti e difettucci di costruzione e anche di stile, Le otto montagne risulta scritto con grande mestiere, con autentica competenza. D’altro canto, il libro della Ciabatti ha un’intensità, a tratti esasperata, che manca a quello di Cognetti. Del primo ammiri la spudoratezza con la quale mette in piazza il vissuto dell’autrice (vero, aggiustato, in parte vero… cosa conta?), con la storia del padre primario e massone, uomo di potere e di rispetto, forse in contatto col Venerabile Maestro Licio Gelli, forse rapito, forse caduto in disgrazia; del secondo, la compostezza con la quale Cognetti articola la vicenda di un’amicizia tra un ragazzo di città e uno di montagna, dosandone accuratamente il decorso, e scrivendo con una prosa senza sbavature.
Viene da chiedersi: e se Ciabatti avesse meditato un po’ di più il suo romanzo-memoriale, cosa non avrebbe potuto tirarne fuori? E se Cognetti avesse avuto qualche sprazzo in più, se si fosse buttato, a un certo punto, senza trattenersi? Discorsi questi che forse lasciano il tempo che trovano; allora cosa dovremmo augurarci, che in qualche modo Cognetti e Ciabatti vengano fusi in una sola persona che sarebbe probabilmente uno scrittore di statura assai superiore? Lasciamo che i due restino separati, a differenza dei teologi del bellissimo racconto di Borges, e diciamo qualcosa di più su La più amata e Le otto montagne.
Nel caso di Ciabatti, mi dispiace ma vedo all’orizzonte un rischio serio per la scrittrice grossetano-romana; e spero di sbagliarmi. Già in Il mio paradiso è deserto, mi rendo ora conto, stava facendo i conti col suo vissuto; la famiglia ricchissima e totalmente sgangherata di quel romanzo, per quanto trasposta a Roma, era una sorta di rappresentazione camuffata dei Ciabatti. Un modo forse di approssimarsi alla resa dei conti con l’ingombrante figura paterna che poi ha avuto luogo in La più amata. Viene quindi da temere che, bruciati in una fiammata quei contenuti autobiografici, l’autrice sia rimasta senza carburante. Ripeto, spero di sbagliarmi.
Nel caso di Cognetti, scrittore che non pretendo di conoscere approfonditamente, noto che gran parte della sua produzione è di misura breve. E Le otto montagne mi pare il parto di uno scrittore di racconti per vocazione che si sia voluto cimentare su una lunghezza maggiore (restando comunque poco sotto le duecento pagine, quindi nel formato del romanzo “tascabile”, per così dire), ma abbia avuto qualche difficoltà a chiudere. Il finale, che ovviamente non posso descrivere in dettaglio, sembra un po’ aggiunto. Forse più della storia in sé Cognetti convince per il modo in cui riesce a rendere l’esperienza della montagna. Cosa anomala in questo paese di tipi da spiaggia, che pure tanto ha dato alla storia dell’alpinismo. Le montagne sono il grande rimosso italiano, il nostro inconscio collettivo, ciò cui abbiamo dato le spalle inventandoci un’identità marina, le Repubbliche Marinare, la Quarta Sponda, le ambizioni di dominare il Mediterraneo, le farneticazioni sulle imprese di Mascalzone latino… Quando invece l’Italia è sostanzialmente due catene montuose che si sono tirate su dal mare e coi frantumi ci abbiamo fatto quelle poche pianure che abbiamo. Bene, Cognetti del nostro retroterra è ben consapevole, e lo è perché si vede che ha sudato salendo sui pendii alpini. Quando racconta le escursioni del suo protagonista, da ragazzo e da giovane, ci credi. È veramente così. Il suo Monte Rosa non è uno sfondo da Vacanze di Natale: è la cosa vera, come dicono gli americani, the real thing.
Infine, nonostante entrambe le storie siano fondamentalmente personali, e deliberatamente tali, non c’è niente da fare: nello sfogo esasperato di Ciabatti c’è la storia infame d’Italia, la storia dei complotti e dei piccoli e grandi maneggi. Che la nostra ha l’intelligenza (o è istinto?) di lasciare indefiniti, irrisolti: quando s’arriva al rapimento del padre resta sempre il dubbio che non sia stato rapito affatto, che sia stato tutto teatro, o che la piccola Teresa e sua madre non abbiano capito niente (se continuava di questo passo finiva nel territorio di Philip K. Dick seconda fase, e chissà cosa poteva succedere…). Però evocare, anche in modo dubitativo, anche con riserva, anche dicendosi che forse se l’è sognato, il venerabile maestro della loggia P2, porta inesorabilmente a porre la storia di un’infanzia felice e di un’adolescenza mica tanto contro lo sfondo della storia patria. E allora non riesco a non chiedermi: se avesse lasciato decantare queste cose, se avesse dato più voce ai comprimari, se avesse allargato l’immagine, lasciando comunque al centro se stessa e la sua famiglia, cosa avrebbe potuto scrivere Teresa Ciabatti? Avrebbe avuto materiale per seicento, pure settecento pagine. Ci avrebbe raccontato la nostra storia insieme alla sua. Avrebbe fatto azzittire tutti. Ma evidentemente non è facile distaccarsi dalla propria vita.
Cognetti sembra più impermeabile al contesto collettivo; tutto sembra racchiuso nel piccolo villaggio (probabilmente piemontese) di Grana, e limitato ai mesi estivi che lì trascorre la famiglia dell’io narrante. Eppure anche qui la storia irrompe a un certo punto, quando di ritorno dal Nepal il protagonista trova l’Italietta immiserita, inviperita e invelenita dalla crisi del 2008. Di colpo ci ritroviamo in un tempo ben preciso, questo, e ce ne rendiamo conto non senza un certo qual trasalimento.
A tirare le somme bisogna dire che entrambi i romanzi, il vincitore e il perdente, lasciano con qualche rammarico, spingono a dire come certi prof “il ragazzo/la ragazza ha stoffa… ma non s’impegna” (giudizio irritante quanto pochi altri, e lo dico sia da ex-liceale che da insegnante). Ecco, ci si poteva aspettare di più, ma quel di più non ci è stato concesso. Però, se ripenso al vincitore dello Strega dell’anno scorso, e cioè l’elefantiaco, logorroico e inconcludente mattone di Albinati, allora mi viene da abbracciare sia Teresa che Paolo, e da raccomandare la lettura di entrambi i romanzi.
E mi butto a dire la mia sullo Strega, nonostante le migliori intenzioni: ci voleva l’ex-aequo.
22 luglio 2017