Senza Elvis

Steve Erickson, Shadowbahn, tr. Michele Piumini, Il Saggiatore, pp. 312, euro 17,85 stampa

recensisce UMBERTO ROSSI

Premessa doverosa: l’autore di questa recensione non crede di aver capito tutto di Shadowbahn. A sua scusante sta il fatto che forse nessuno ha capito tutto di Steve Erickson. Eppure continuiamo e continueremo a leggerlo. Capire, in ultima analisi, sottintende una qualche forma di razionalità, di ragionamento con una sua coerenza. Ma Erickson è uno scrittore di sogni, uno scrittore dell’inconscio. Greil Marcus, uno che di cultura statunitense ne capisce qualcosa lo ha definito «l’unico autentico surrealista americano»; e quando s’entra nel territorio del surrealismo, le opere d’arte, siano esse scritte, dipinte, filmate, non si capiscono – semmai si introiettano, o te le inietti e poi aspetti di vedere l’effetto che fanno. Il giudizio di Marcus è condivisibile se si limita alla letteratura; perché ovviamente nel cinema c’è un altro grande surrealista americano, e quello è David Lynch. Ecco, esattamente, Erickson è un Lynch che non ha fatto uso della cinepresa ma della macchina da scrivere e del PC; e spero che questa formulazione vi dia una mano ad avvicinarvi a questo strano scrittore che scrive stranissimi romanzi.

La voce della Wikipedia in inglese definisce Erickson come writer’s writer. È una via di mezzo tra un privilegio e una maledizione, essere uno scrittore da scrittori, o uno scrittore degli scrittori; vuol dire che sei immensamente amato dai tuoi colleghi, ma non necessariamente apprezzato e conosciuto dai lettori. In compenso lo scrittore da scrittori è oggetto di culto, e può vantare prestigiosi ammiratori: nel caso di Erickson, le lodi sono arrivate da Thomas Pynchon, e qui i maldicenti potrebbero obiettare che la moglie dello Scrittore Invisibile è l’agente letteraria dell’autore di Shadowbahn; ma a questi apprezzamenti vanno aggiunti, senza tema di conflitti d’interesse, quelli di Haruki Murakami, Neil Gaiman, David Foster Wallace, Richard Powers, Jonathan Lethem, Kathy Acker, William Gibson e pure Mark Z. Danielewski, quello di Casa di foglie. Non mi pare poco.

Veniamo a Shadowbahn, l’ultimo romanzo di Erickson nel senso che è il più recente (pubblicato in America nel 2017 e uscito in Italia quest’anno), ma anche perché circolano voci che l’autore non ne scriverà altri. Questo prelude forse a un cambio di scrittura? Erickson ha anche pubblicato due libri non-finzionali, American Nomad, che è una sorta di stralunato reportage sulle presidenziali americane del 1996, in origine destinato a Rolling Stone, poi rifiutato dalla rivista e pubblicato in volume; e Leap Year, del 1989, che il sito dello scrittore descrive in questi termini:

In viaggio in treno e in auto da convention politiche a locali di strip-tease alla cintura degli UFO nel Texas panhandle, il narratore è accompagnato da una vagabonda immortale di nome Sally, che all’età di quindici anni scelse di rimanere la schiava-amante di Thomas Jefferson e così cambiò per sempre il significato e l’importanza del suo paese. Duecento anni dopo, gli echi di quella scelta condizionano un’America già molto oltre i suoi momenti di svolta.

Aggiungo che nessuno di questi due libri è mai stato tradotto in italiano, e la cosa non mi sorprende più di tanto. Mi sembra già tanto che sia stato tradotto Shadowbahn, libro indubbiamente anomalo e spiazzante.

Si resta abbastanza perplessi fin dall’inizio, quando il camionista Aaron, che sta attraversando col suo camion le Badlands del Dakota, un’area selvaggia e spopolata all’interno di un parco nazionale, vede apparire a lato dell’highway 44 le Torri Gemelle nel bel mezzo del nulla. Allucinazione? Fenomeno paranormale? Fantascienza? Dopo averci fatto assistere al raccogliersi di una folla stupefatta che rimira le torri miracolosamente ritornate, siamo proiettati al 93° piano della torre Sud, dove si risveglia piuttosto disorientato Jesse Garon Presley, il fratello gemello di Elvis. E da questo punto in poi ci perdiamo anche noi nelle Badlands, ma quelle di Erickson, non quelle del Dakota.

Di fatto Elvis the Pelvis aveva un gemello che però nacque morto. Nel romanzo, invece, è Jesse il gemello vivo, che però non ha il talento musicale dell’altro Presley. A causa di ciò il rock’n’roll non si è diffuso dall’America al resto del mondo, e gli altri innovatori della musica rock non hanno trovato il terreno pronto per le loro canzoni; nel mondo evocato o meglio sognato da Erickson, i Beatles non sono mai neanche nati, hanno avuto un modesto successo locale in Germania e poi sono praticamente spariti. Da parte sua Jesse Presley si limita a scrivere recensioni di dischi dallo stile assai poco ortodosso, e ne scrive di sempre più strane finché la rivista alla quale le spedisce le rifiuta.

Ma oltre a Jesse e Aaron ci sono altri personaggi che vagano nella strana America del romanzo, nella quale gli Stati sono tutt’altro che Uniti, e il tessuto nazionale sembra essersi lacerato; sulle strade dell’America sono in viaggio due fratelli, Parker e Zema, lui ventitreenne, lei quindicenne, in cerca della madre che li ha lasciati anni prima, e in macchina ascoltano le playlist preparate da loro padre, serie interminabili di canzoni americane, disposte secondo una logica alquanto personale eppure dotata di una sua coerenza. Perché la musica è fondamentale in questo libro, dove a un certo punto radio lettori CD iPod e quant’altro non funzionano più, la musica sparisce, eppure ognuno continua a sentirsela in testa, ognuno una canzone diversa.

Come già ho detto: un romanzo onirico. Sembra l’intreccio (o la collisione) di quattro o cinque, facciamo sei, sogni veramente strani fatti da Erickson. Eppure, com’è tipico dei sogni, ci sono anche riflessi del mondo desto. Prendiamo per esempio Zema e Parker; lui è bianco, lei no, perché viene dall’Etiopia ed è stata adottata. E tramite questa coppia di fratelli assai diversi Erickson fa rientrare in gioco un suo vecchio assillo, già presente in Arc d’X, quello del colore (essendo razza una parola alla quale non ci si dovrebbe rassegnare). Nei motel ai due non vogliono dare una camera singola perché non credono che siano fratelli; e comunque il tema del bianco e del nero, che serpeggia in tutta la storia ma anche la letteratura americana, riemerge continuamente nel romanzo, intrecciandosi incessantemente con quello della musica.

Infatti è proprio qui che tutto si aggroviglia, e che Presley diventa una figura centrale: lui che fa nascere il rock’n’roll attingendo al country dei bianchi e al blues dei neri, come egli stesso riconobbe (e le sue parole vengono citate da Erickson). Ma gli scambi tra la musica dei neri e quella dei bianchi sono molti, e riemergono anche nelle recensioni di canzoni che inframmezzano il testo, dove si illustrano per esempio le trasformazioni di «Night Train» prima che se ne impadronisca il «padrino del soul», alias James Brown, o la storia nera di «People Get Ready» prima che la eseguissero i bianchi Rod Stewart e Jeff Beck. E così via.

Mi fermo qui perché un romanzo di Steve Erickson non si riassume. E forse neanche si capisce: come dicevo prima, si introietta. O si sogna. Ma attenzione: le torri gemelle, la questione del colore, la frantumazione degli Stati Uniti nel romanzo assumono sempre più spesso tonalità da incubo, ma un incubo un po’ troppo solido, un po’ troppo reale. Ed è un incubo che comincia a manifestarsi anche dalle nostre parti…

Di Erickson è stato anche ripubblicato su PULP Libri un profilo nella Rubrica PULP Vintage.

Aggiungiamo il link al sito dello scrittore:
https://www.steveerickson.org/

https://www.ilsaggiatore.com/