Arto Paasilinna, Emilia l’elefante, tr. Francesco Felici, Iperborea, pp. 251, euro 14,45 stampa, euro 9,99 ebook
Come sempre nei libri dell’autore finlandese la trama è sintetizzabile in poche righe: l’elefante Emilia si vede interrotta la sua carriera circense da una legge che impedisce le esibizioni di animali selvaggi. Inizia così uno strano viaggio, ricco di avventure e sorprese, verso la Russia: dieci anni passati su un treno in compagnia della sua addestratrice, Lucia Lucander. Sembra un esodo felice per la coppia: balli, feste, cibo e tanta musica. Ma arriva una svolta: l’Unione Europea promulga un’altra legge che vieta gli spettacoli, per cui Lucia decide di riportare Emilia in Africa. Inizia un nuovo viaggio.
Non è certo facile trovare qualcuno disposto ad imbarcare un elefante: Lucia ed Emilia troveranno molti ostacoli sulla loro strada, ma anche molte persone generose disposte ad aiutarle. Paasilinna è un maestro nel ritrarre personaggi di ogni tipo con semplici e veloci pennellate. Ma bisogna sgombrare il campo da alcuni equivoci estetici: il lettore che qui cercasse le pagine dedicate alle introspezioni psicologiche, tipiche della contemporaneità, resterebbe deluso. La tradizione romanzesca alla quale si rifà l’autore è quella della fiaba premoderna, il viaggio picaresco seicentesco. I personaggi non assumono spessore perché così richiede questo modello, non per incapacità dello scrittore. Essi resteranno impressi però come fugaci apparizioni, schegge, sprazzi di un disegno sempre più vasto di loro, a comporre un arazzo senza un centro fisso.
Sempre divisi tra normalità e pazzia, tra determinazione e incoscienza, scorreranno davanti ai nostri occhi ubriaconi e mogli in fuga, negozianti innamorati e macellai che pensano alla ricetta migliore per realizzare una salsiccia di pachiderma. Ma anche imprenditori sconfitti dalla vita che decidono di compiere un’ultima pazzia, pompieri volenterosi, eco-complottisti, vetrerie abbandonate, pollai enormi e autobus accartocciati.
Paasilinna si ama o si odia. I suoi personaggi strampalati, ai limiti dell’anarchia, assurdi e ironici, ma in grado di commuoverci fortemente, richiedono lettori già abituati a questo tipo di opere anti-moderne. La follia leggera e ironica che ci ammalia e avvolge, con garbo e buon gusto, è lontanissima dalla violenza dei libri odierni.
La sua capacità di passare da un argomento all’altro, dal serio al faceto, ricorda per certi versi quella prosa italiana non definibile in nessun genere. Con che facilità ci fa vedere i paesaggi nordici, per poi passare improvvisamente a descrivere i manicaretti di una cucina a noi sconosciuta. L’uso linguistico è di una precisione chirurgica: ogni piatto, ogni usanza a esso associata viene messa in risalto citando, in tutta semplicità, il suo nome, le sue origini. E poi una capacità di immedesimazione nei panni di questo elefante, che ci pare umano, forse più che umano: in poche pagine capiamo quante sfumature possono passare nei rapporti tra animali e uomini. Viene alla mente un altro libro, quel Viaggio dell’elefante di Jose Saramago, che, seppur nel differente uso barocco del linguaggio, adotta una prospettiva analoga a quella del nostro Autore.