Adan Zzywwurath sceglie Herman Melville

Mancava, alla nostra galleria di paragrafi esemplari di grandi autori del passato scelti da scrittori di oggi, l’immenso Herman Melville; a proporci il finale del suo Moby Dick, Adan Zzywwurath, pseudonimo di un poliedrico personaggio che scoprirete in fondo a questa pagina – e Adan ci ha anche fatto avere un suo commentario al passo di Melville, che vi proponiamo volentieri.

Epilogo

E io  tutto solo sono scampato per rapportartelo
Giobbe

Il dramma s’è concluso, perché allora qualcuno si fa avanti?… Perché uno è sopravvissuto al naufragio.

Si dà il caso che dopo la sparizione del Parsi fossi io quello designato dalle Parche a prendere il posto del prodiere di Ahab, quando quel prodiere assunse il posto vacante; sempre io quello che, quando l’ultimo giorno i tre uomini vennero sbalzati fuori dalla lancia squassata, ripiombò a poppa. Così, galleggiando ai margini della scena che seguì, proprio sotto i miei occhi, quando il risucchio affievolito della nave mi raggiunse, venni allora, ma a rilento, trascinato verso il gorgo che si richiudeva. Quando lo raggiunsi era ridotto a una pozza spumosa. In tondo in tondo, allora, sempre più restringendomi verso la nera bolla simile a un bottone, asse di quel cerchio in lenta rotatoria girai, novello Issione. Toccato ch’ebbi quel centro vitale, la bolla nera esplose verso l’alto ed ecco che, sprigionata dall’ingegnosa molla, la bara salvagente, risalendo con grande impeto dovuto alla grande spinta di galleggiamento, schizzò fuori dal mare a perpendicolo, ricadde e mi fluttuò accanto. Tenuto a galla da quella bara per quasi un giorno e una notte interi, fluitai cullato dal sommesso canto funebre del pelago. Accanto mi guizzavano innocui gli squali, quasi avessero il lucchetto alla bocca; rostro inguainato, planavano i selvaggi falchi marini. Il secondo giorno un veliero si portò vicino, sempre più vicino e alla fine mi raccolse. Era la “Rachele” che, incrociando erratica a ritroso alla ricerca dei figli perduti, trovò soltanto un altro orfano.

FINIS

(Moby Dick, tr. Ottavio Fatica, Einaudi, )

“Uomo in Mare!”

(Excursus in forma di pittura)

di Adan Zzywwurath

I. È nel naufragio che si conosce il Mare.

Perciò: la quintessenza d’ogni pittura marinara è l’ex voto.

Come il finale resoconto di Ishmael, in Moby Dick, insegna, il punto di vista genuinamente “marino”, mi pare, è sempre quello: da vittime, o da scampati. All’inabissamento, alla catastrofe mitica, all’attacco infero.

Negli ultimi duemila anni la forma ex-voto non si è molto evoluta, tra i cristiani, e può riassumersi così: nella parte inferiore del dipinto c’è il mare – decisamente in burrasca. Tra le onde, un uomo – quasi sempre –, o una donna, meno spesso – che annega; o una nave che già protende la chiglia per sprofondare nei gorghi; oppure una barca, o zattera, o “bara salvagente”, popolata da uno o più sciagurati che boccheggiano. Nella parte superiore il quadro è illuminato da una coccarda luminosa al cui centro compaiono: una sola persona della Trinità (Gesù, difficilmente le altre due), oppure la Vergine (da sola o col Figlio), oppure uno o più Santi, o in alternativa un emissario qualificato appena fuoriuscito dal Paradiso (un Angelo custode, un Cherubino, un Arcangelo).

Quello squarcio tra le nubi disperate è l’effetto-laser della preghiera puntata dai derelitti contro il Cielo.

All’origine della pittura marinara, subito dopo l’ex voto (ma con la stessa ammirazione per l’intervento divino nella Storia), porrei la rappresentazione del mare come teatro delle grandi battaglie navali. Il mare solcato da armi e galee, il mare che rimbomba di tamburi che danno il ritmo ai forzati rematori, che ruggisce di catapulte gravide di proiettili, che si infiamma di fuoco bizantino, che stride di rostri che penetrano e sbuzzano gli scafi.

Tragedie e guerre si addicono al mare.

Il mare sospende ogni diritto.

Il fiume è dei mercanti, il mare è dei pirati. Si riconosce subito una cultura fluviale, e come e quanto si discosta da una marinara. Basti pensare alle pitture murarie egiziane, ai loro tiepidi vascelli – sembrano fatti di carta pergamena –, che placidamente scendono il Nilo. Incanalato nella corrente del fiume, il commerciante, il notabile locale conservano ogni potere, ogni privilegio dovuto al sopruso. In mare, invece, persino il Re e i suoi eredi possono essere assaliti, rapiti, incatenati, da predoni meglio equipaggiati e armati delle navi che debbono proteggerli.

Victor Hugo: L’Onda

II. Anche le credenziali bibliche sono pessime. Si controllino, per questo, le fonti scritturali di Herman Melville.

In Giobbe (12, 7) il Mare è un Mostro, e come tale va tenuto a guardia. I Salmi e Giovanni ce lo rappresentano come la casa del Leviatano, padre archetipo di tutte le creature più diaboliche.

Dappertutto, nella Scrittura, quando Dio è ostile all’uomo, evoca il Mare per spaventarlo, o minaccia naufragi e inondazioni per atterrirlo. Il Mare s’erge come ostacolo agli Ebrei in fuga dagli Egiziani: è il limite d’ogni speranza. Per riaccedere alla Terra Promessa, non bisogna navigarlo, ma evaporarlo, spaccarlo in due con un’invisibile ascia divina.

L’Apocalisse (XXI, 1), poi, maledice: nella Terra salvata e rinnovata dal secondo avvento di Cristo, non ci sarà posto per il Mare. Perché tanto odio da parte di Giovanni?  Risponde, forse, quell’altro verso ebbro, che, sempre nell’Apocalisse (XX, 13), vaticìna: “Il Mare restituirà i Morti”…

Il Mare è, per l’uomo mediterraneo che si affaccia con orrore sulle sue bellezze, un insaziabile, immane “Obitorio sommerso”.

Il Mare è la più grande cosa morta che si muova. Lo solcano fantasmi di velieri e spettri melvilliani di balene. Lo infestano, nelle profondità più inaccessibili, gli ossari di miriadi di navigli inabissati, i resti di milioni di affogati.

III . L’esatto contrario di quanto si vede festeggiare negli ex-voto è la tragedia incomprensibile dell’annegamento. Se il salvataggio divino non funziona, che succede?

Creature umane affondano, soffocano, vengono risucchiate nell’abbraccio di una placenta innaturale, giù, sempre più giù, nell’indifferenza del pesce, della seppia, di cui mimano il destino rovesciato. Stavolta è il Mare che prende noi nella sua rete.

Un vasto Purgatorio, senza pace, attende chi affoga.

Se non riaffiorano, gli annegati non otterranno mai una onorevole sepoltura cristiana: di conseguenza, le cronache e le tradizioni dei Paesi cattolici si sono sempre occupati di loro con trepidazione. Indegni del riposo eterno, questi morti – si racconta –, come larve, come fuochi, appaiono sulla tolda delle imbarcazioni, per mendicare una prece.

È persino peggio quando il Mare restituisce i loro corpi. Accade, raramente. Non è superstizione: certi annegati, tirati a riva cadaveri, issati sul ponte di navi o pescherecci, mostrano, sull’epidermide, l’impronta viva di una mano.

Il fatto, in sé raccapricciante, ha trovato una spiegazione leggendaria, ancora più orrorifica.

disegno di Raemaekers

Quando un uomo o una donna affogano, e gridano, annaspando tra i flutti, attirano qualcuno, un Abitatore delle Acque, che ha forma umana. Costui li attanaglia, con una presa tanto ferrea da lasciare un’orma profonda sulla loro pelle; poi, così artigliate, trascina le sue vittime nella fossa di mare più profonda.

Giunto laggiù – dice la credenza popolare –, quest’orrido tritone svuota i suoi cadaveri: estrae da loro l’Anima immortale, per riporla in certi vasi capovolti, da cui nessuno spirito potrà mai più sfuggire. I corpi inanimati, invece, li lascia andare e piano piano, quelli risalgono, leggeri, in superficie.

Secondo le tradizioni più squisitamente marinare, l’Uomo delle Acque, il ghermitore e custode d’annegati, è un Vecchio senza Testa. Così che si ha un bel scrutare il Mare, con apprensione o angoscia, nell’ansia di vederlo apparire durante le sue imprese predatorie. Pur essendo perennemente in agguato, presente e prossimo al punto che potremmo udirne il respiro affannoso, il Vecchio non si mostra mai ai testimoni; perché nulla di lui emerge dalla superficie delle acque. L’Uomo è senza testa.

A volte, favoriti dalla luce tagliente, ci pare di veder affiorare dai marosi la sua mano avida, unghiuta, insanguinata. Ma è un’illusione.

Come è avvenuto che, essendo privo di lineamenti, il Pescatore d’Affogati sia stato riconosciuto anche come “Vecchio”, è un cospicuo mistero.

IV. È probabile – lo apprendiamo da Alberto Savinio (Nuova Enciclopedia) – che “Mare”, nel significato originario, voglia dire “cosa morta, dalla radice Mar, morire”, in sanscrito Maru, che di solito va tradotto con “deserto”.

L’etimo congiunge quindi i due estremi: la massa diluviante d’acqua degli oceani, e le sterminate, desolate regioni del pianeta prive d’acqua; il mare senza sabbia e la sabbia senza mare.

Entrambi “deserti” di uomini e di vita “in superficie”, e quindi: analoghi, simili al mondo infero della morte, che tutto inghiotte e occulta nei suoi abissi.

Il Mare come le dune di polvere – ustionate dal sole, scheggiate dal vento incessante –, è fonte di miraggi, di illusioni; come la sabbia mobile è subdolo e invitante. Quando si apre? Per accogliere nelle sue viscere gli affogati, per digerire zattere e relitti, per vomitare mostri sulla costa. Il mare tutto spazza, ingurgita, spolpa e ripulisce, proprio come la morte: e se fosse per lui, proprio come la morte, non restituirebbe nessuno.

Klinger  (si salva solo un guanto)

 

V. Tra tutti gli epitaffi che ingombrano l’epigrafia antica, mi è particolarmente caro uno, in forma di preghiera, con cui, mentre la sua nave colava a picco, un marinaio punico nobilitò i suoi ultimi istanti. Lo trovo citato in Borges (Sette Notti).

Dice: “O Madre di Cartagine, restituisco il remo”.

È anch’esso un ex voto, ma stavolta l’uomo, che tra poco lascerà la vita, non si rivolge ad altra Divinità che non sia il Mare. Per placarlo e chiedere quiete, non salvezza.

Socchiudiamo il Libro del Tao, per leggere: “Quando le creature hanno avuto il lor rigoglio, / ciascuna fa ritorno alla sua radice. / Tornare alla radice è quiete, / il che vuol dire restituire il mandato, / restituire il mandato è eternità […]”

Fin’allora saldo nelle correnti, impavido nelle tempeste, vigoroso nelle bonacce, l’umile marinaio di Cartagine ha governato il suo destino mulinando e timonando il remo dove la propria volontà o quella del padrone lo portava. Ma adesso, morendo, rende le insegne e accetta la deriva.

“Abbandonati al mare senza la nave, il mare ti dirà che cosa sei” – ha verseggiato ‘Attar, nel suo Poema Celeste.

È lo stesso compito sovrano, credo, che ha la Morte, per tutti noi.

Più misericordioso della Cristianità, ha fede, l’Islam, che il moto del Mare equivalga a una preghiera, incessante, che esalta il Signore Iddio.

Per questo, immagino, è così difficile rappresentare il Mare in una pittura che non sia, anche, un ex voto.

O in un racconto che non sia, anche, soprannaturale. E, in casi obbligati, un racconto dell’Orrore.

 

Con lo pseudonimo di Adan Zzywwurath, Franco Porcarelli (1952) ha pubblicato due romanzi: il primo, Il matrimonio del Mare e dell’Inferno è uscito a puntate nel 1980 sul quotidiano Il Manifesto, e poi in volume (Manifestolibri, 2003). Il secondo romanzo, Khalulabìd o il Sogno dei Dieci Re è stato pubblicato nel 1984 su Il Manifesto e poi in volume nel 2004 (Manifestolibri). A questi si aggiungano le raccolte di racconti L’ultimo caso del piccolo Lama Nanguj (Theoria, 1986) e Diario della Letteratura perduta (manifestolibri, 2003). Alla fine del 2018 è uscito il suo ultimo libro: la Fantaenciclopedia, “Dizionario di Idee Perdute, Racconti Insoliti e Curiosi e Fatti della Storia Negletti e Perturbanti”  (Manifestolibri).

Franco Porcarelli è stato anche, per circa quarant’anni, un giornalista della RAI. Ha prodotto e curato circa 300 film, fiction e documentari. Ha scritto, e scrive, copioni teatrali, sceneggiature per film, per la TV, per i fumetti (ha creato, con Mauro Cicaré, il personaggio Fuori di Testa per la rivista il Grifo), e ha pubblicato un saggio su un genio dei cartoni animati: Tex Avery (Il Grifo, 1994).