Jonathan Franzen, in un bell’articolo, racconta l’amicizia con “Bill” Vollmann, la prima da quando era uno scrittore pubblicato. Simpatia strana, se ci addentriamo nei rispettivi caratteri, ma non priva di un fascino indotto che spinge il lettore nostrano verso pensieri non proprio campati in aria. Certi autori appaiono circondati di aloni in stile “uomo caduto sulla terra”, e il rischio d’incongrue conclusioni risulta alto, si mescola a quotidiani dissolvimenti e ricomposizioni della realtà, e a cadute dentro anomalie. La Rete è colma di sbrigative realtà parallele, al punto che la vera “fantascienza” possono sembrare i fatti che hanno portato alla scoperta dell’America o a certe invenzioni datate anni Sessanta del 2000. Tutto molto prima che il futuro cambiasse definitivamente. Ma abbandoniamo digressioni da frequentatori d’alte biblioteche (e Castelli).
È probabile che in questi due scrittori, mettendo da parte le implicazioni politiche, gli occhi sul mondo non si differenzino granché per livelli di percezione e spinte avventurose. Ma riguardo alla loro psiche le cose stanno diversamente: ossessiva depressione, congenita e cristallizzata, per l’uno, bulimica tendenza a leggere e scrivere centinaia di pagine in una sola giornata, per l’altro. Il rispetto e l’ammirazione di Franzen per Vollmann inizia da qui. Anche le loro mogli, a quel tempo, erano diverse. Lo chiarisce Franzen nel suo articolo (ripreso ora nel volume La fine della fine della terra, Einaudi), facendolo apparire come caso non di poco conto. Ricordiamo che entrambi sono figli di un paese il cui vittorianesimo non è stato ancora digerito. Come molte altre cose riguardanti scrittura, impegno, vita sociale, ambientalismi, questione razziale, giudizi e pregiudizi universali, e via così. Nati entrambi nel 1959, si contendono radicalismi differenti, ma pur sempre radicalismi. L’iperfertilità di Vollmann affonda le radici in scrittori archetipi profondamente “americani” (Whitman, per esempio), da sempre protesi a immergere le mani nel caotico mondo della storia, epica e immaginaria, epica e convulsamente documentata.
L’organizzazione logica dei libri di Vollmann trascende il comune sentire, vi si trova dentro una marea di contenuti sublimi e montagne di indizi e saghe che giungono da ogni parte. Dal sottosuolo, e varcando oceani caldi o ghiacciati, l’inventario delle epoche giunge nelle strade americane, supera cancelli e porte di casette a schiera e appartamenti del Queens. Lo scrittore di Santa Monica farebbe l’inventario del contenuto di un bidone dei rifiuti (copyright Franzen), se necessario. E quasi sempre lo è. La riproposta da parte di Minimum Fax della Camicia di Ghiaccio s’innesta in una certa desolazione pubblicistica attuale, cercando di scardinarla dall’interno. Chi si addentra nelle saghe e nelle radici del mito americano, lì narrate, avverte subito la vertigine di fronte al potenziale creativo nudo e crudo. Inutile difendersi, pena una brutta fine degna delle Pinturas negras di Goya. La raffinatezza stilistica di Vollmann è inequivocabile, a differenza di quanto accade per altri propugnatori (non sono pochi) di epopee infinite e avventurosamente popolari.
Ogni pagina di Vollmann pone illimitata attenzione alla grammatica, alla punteggiatura, a quel che si definisce in una parola: stile. I capitoli della vita e i capitoli dei libri diventano l’universo intero, un nugolo fitto e composito a cui è difficile sfuggire. Lo prova questo romanzo, il primo della serie dei Sette Sogni, dedicata alla fondazione del mito americano. I capitoletti componenti la mole definita del volume sono brevi, concertati, mai sbrigativi, delicati nel loro entrare dentro la stanza dei bottoni della storia e dell’iperstoria. Sui territori infiniti del continente appaiono nativi americani, popoli del ghiaccio, groenlandesi, esploratori, cacciatori, invasori, re, regine, foche e orsi. Bestie e umani, razze e mostri, caratterizzati dal giusto nome e arricchiti di giusta pronuncia, ingravidano miriadi di vicende e casi fondamentali affinché l’attualità si trasformi in quel tempo Unico che congiungerà per sempre le epoche. Mappe, fonti, glossari, note esplicative, fanno parte della mastodontica costruzione: è la “storia del ghiaccio” che Vollmann prende fra le mani, riconsegnandola al nostro stato di allievi postumi, per lo più ignoranti o disattenti. Groenlandia e mutazioni sono parte di una storia “totale” che ci appare ingiustamente lontana nel tempo e nello spazio.
La smemoratezza, ahimè, ci ha instupidito, ma usiamo premura con queste pagine traboccanti viaggi terribili e incantati, veri o immaginari, reali o realistici, risolti nella testa di uno scrittore dalla generosità interminabile, e decisivi per un disvelamento sempre più necessario. In un ipotetico trittico Vollmann potrebbe stare in mezzo a David Foster Wallace e Philip K. Dick. In epoca di disgregazioni politiche e culturali (o per lo più aculturali) c’è bisogno di opere propedeutiche, simili agli indimenticati volumoni che molti decenni fa nella scuola secondaria fondarono in molti di noi la verità del mito. Immergersi nella Camicia di Ghiaccio è ritrovare il tempo, le narrazioni perdute, e tutte quelle che in seguito ci sono state nascoste.