Al di sotto di una nuvola atomica, tra Cambogia e Thailandia, su (o meglio, dentro) una terra nera di muffa e altri colori organici e putridi, avvengono strane cose per un occidentale, ancor più se inglese. Dove tutto è furtivo, e i traffici montano fra tassisti, barang (come vengono definiti gli occidentali in quelle regioni) e conducenti di tuk-tuk, Robert, il giovane rampollo che si allontana dai genitori, si ritrova a vincere inopinatamente un mucchio di denaro al casinò, ma scambiando parole e compagnia, con una ingenuità anche troppo dotata, viene turlupinato e isolato nelle viscere di questo mondo fumoso e rossastro, saturo di piogge fango e credenze arcaiche non meno fascinose di fanciulle dai nomi riccamente orientali come Sophal e Sothea.
Osborne però non si è mai reso prigioniero dell’esotismo di facile presa e che piace tanto ai Westerners (e che i giornali di Phnom Penh giustamente ridicolizzano). Chi ha letto Bangkok sa cosa intendo. La difficile comprensione di usi, costumi e tradimenti di cui l’aria locale è satura tiene lontani da una salvezza, e se accade un fatto incoraggiante la traversata delle piane alluvionali è quanto di più disastroso possa accadere al viaggiatore che espatria, dilapidandosi senza quasi accorgersene.
Fra tassisti che fanno il doppio gioco, poliziotti corrotti e puttanieri, personaggi che prendono in consegna non soltanto l’anima di Robert, ma anche portafogli e passaporto, fanciulle di “buona famiglia” che scolano bottiglie di vodka come fossero di tè al gelsomino, sedicenti dottori che tengono sermoni sulla deriva cambogiana, il tutto immerso nel caldo lampeggiante di fulmini (appunto “atomici”), il povero (ma sempre elegante) Robert subisce uno scambio di identità verosimilmente Hitchcockiano. Ma intriso dell’oppressione indocinese, tutta vera, che certi film ci hanno reso fin troppo evidente (Apocalypse now, L’amant, The Quiet American e via discorrendo).
La rivoluzione dei Khmer Rossi non è affatto disgiunta dal clima che respirano i protagonisti, e noi con loro. Quasi ogni giorno dai fiumi e dal Mekong riemergono cadaveri di scomparsi, quasi sempre ciò che resta di giramondo occidentali che non hanno capito nulla. Sono i fantasmi che vagavano fra i templi immersi nella giungla e i bordelli di città, paesi e rovine dai nomi sconosciuti (Battambang, Wat Banan, Prek Pnov).
Passando per il libro ci viene in mente il padre di tutto questo bailamme avventuroso: Graham Greene. E prende come uno sconforto in perfetto stile Cacciatori nel buio, un senso di perdita per un mondo estinto, reale per gran parte del secolo scorso, narrato filmato e immaginato in tutte le salse. Per chi ha l’età giusta per aver sentito parlare di Indocina e poi di guerra fredda e pericolo atomico, ciò che è venuto dopo ha soltanto l’insapore e asettico glamour del microchip.
18 Settembre 2017
Di Lawrence Osborne Elio Grasso ha recensito anche La ballata di un piccolo giocatore.