AA.VV. Antropocene: L’umanità come forza geologica, a c. di Francesco Verso e Roberto Paura, tr. Alda Teodorani, Francesca Secci, Italian Institute for the Future, pp. 261, euro 15,94 stampa
recensisce UMBERTO ROSSI
E ora qualcosa di completamente diverso.
Le raccolte di racconti di autori diversi sono parte integrante della tradizione della fantascienza (alcune di esse sono vere pietre miliari, come Dangerous Visions e Mirrorshades). Raccolte di saggi uniti da un tema comune sono un classico, sia nelle scienze che nelle discipline umane. Però bisogna ammettere che Roberto Paura e Francesco Verso, mettendo insieme una serie di saggi e racconti incentrati sul concetto di antropocene ne hanno inventata una nuova, almeno nell’ambito dell’editoria (di fantascienza) italiana.
Chiariamo subito che l’antropocene sarebbe una nuova era del nostro pianeta, determinata non più solamente da fenomeni «naturali» (attenzione però all’uso e abuso di questo fenomeno…), bensì dall’impatto delle attività umane, antropiche, sull’ecosistema e sul clima terrestre. L’antropocene è l’era del (sur)riscaldamento globale, nella quale stiamo entrando allegramente (secondo alcuni) o tragicamente (secondo altri), ma di certo a grandi passi. Come spiega Marco Signore nel suo saggio «Prima del Ragnarök», il nostro pianeta s’è riscaldato e raffreddato diverse volte in passato, ma mai così rapidamente.
Accostato all’interessantissimo saggio di Signore, che fornisce un quadro d’insieme dei fenomeni in corso e di quelli passati, il primo racconto della raccolta, «Le nevi del tempo che fu», del canadese Jean-Louis Trudel, non brilla per originalità, ma fa decentemente il suo lavoro di proiezione di un futuro temuto e incombente, e cioè il momento in cui si scioglieranno i ghiacci della Groenlandia; Trudel immagina che anche allora qualcuno troverà il modo di farci i soldi, in maniera neanche tanto lecita, un’intuizione indebolita da un finale di maniera che ricorda un po’ troppo la fantascienza dell’età dell’Oro, quando la super-minaccia veniva sempre sventata dalla super-invenzione.
Sicuramente più convincente il surreale racconto «Un giorno da ricordare», di Clelia Farris, con la sua visione tra Dalì e Ballard di un mondo sommerso dove s’ingegnano i pochi superstiti a tirare a campare – in modo che hanno più dell’onirico che del fantascientifico. A questa notevole prova della scrittrice sarda (ogni tanto la nostra fantascienza si dimostra all’altezza di quella angloamericana, grazie a Dio o chi per lui) viene accostato un po’ tirandolo per i capelli il denso saggio di Antonio Camorrino «Nostalgia della natura», che smantella spietatamente tutta una serie di mitologie ambientaliste pop che invadono non da ieri l’immaginario collettivo, con dovizia di riferimenti teorici – a Camorrino, da ambientalista, voglio solo ricordare che l’unico ecologismo che vale la pena di prendere in considerazione è quello che abbia metabolizzato la lezione del conte Leopardi, specialmente per come esposta nella «Ginestra». La natura è indifferente, e senza social catena siamo pronti per l’estinzione.
Fausto Vernazzani, nel suo saggio «Orfani del cielo», ci fa una panoramica della questione ambientale in Cina, e si resta sorpresi nello scoprire come un paese afflitto da forme di inquinamento estreme per intensità e dimensioni (raffigurate in «La società dello smog», il racconto di Chen Qiufan incluso nella raccolta) potrebbe prendere l’iniziativa di promuovere la politica ambientale su scala planetaria, ora che gli Stati Uniti si sono caricati un presidente eco-negazionista che fa rimpiangere persino canaglie come Reagan e Bush. Forse i cinesi abbracceranno la causa verde per il semplice motivo che altrimenti non ci saranno più cinesi – non ci credo molto, però in una situazione come questa a qualcosa ci si dovrà pure aggrappare.
Cupamente apocalittico, come li sanno scrivere solo gli inglesi, «Macaoni giganti» di Marian Womack, ambientato in un’Inghilterra allagata e moribonda. Ma la Womack viene battuta in pessimismo dal saggio «E rimarrà solo un apriscatole», di Gennaro Fucile, un’analisi lucida del rapporto tra consumismo e devastazione ambientale, che – ahinoi – mi pare tutt’altro che ingiustificato. Non è detto che stiamo andando incontro al lieto fine, anzi, con l’aria che tira, in questa fase terminale e isterica dei dogmatismi economici liberisti, in un momento in cui il discrimine tra economia legale e illegale non si sa bene se esista più, la direzione verso la quale ci stiamo muovendo è quella del disastro, e fa bene chi lo dice chiaramente. Chi ancora decanta magnifiche sorti e progressive (che non prevedano un drastico e doloroso cambiamento di rotta) o ci fa o c’è (non so bene a quale delle due categorie appartenga Trump, forse – cosa rara – a entrambe).
La raccolta contiene almeno un classico dei classici, e cioè Robert Silverberg, col suo sorprendentemente profetico racconto «Cielo rovente», risalente al 1990; è la zampata del vecchio leone, un racconto di ventotto anni fa che pare scritto oggi, con la difficile situazione di un capitano che deve scegliere se pensare all’iceberg che ha preso a rimorchio per dissetare San Francisco oppure aiutare l’equipaggio di un peschereccio in gran difficoltà. Un racconto che al tempo stesso evoca un futuro apocalittico, crea una situazione umana lacerante, e riecheggia le opere di Melville, Coleridge e Conrad. Ma lui è Silverberg; lui può. Divulgativo invece il saggio che l’accompagna, «Tra i ghiacci di “Marte Bianco”», di Giampietro Casasanta, che descrive l’attività di base Concordia in Antartide.
Chiudono la raccolta gli scritti dei due curatori della raccolta, Verso e Paura, il primo col suo racconto postapocalittico «Due mondi», l’altro col suo saggio «Biohacking o ecohacking». Non a caso la loro è l’accoppiata fantascienza-scienza meglio coordinata di tutto Antropocene. Nel racconto di Verso si tenta di immaginare come sarà il mondo dopo che l’irreparabile (leggi: fusione dei poli) sarà avvenuto e per sopravvivere l’umanità sarà stata costretta a modificarsi geneticamente, dividendosi in due specie, una aerea che vive sulle montagne dai 3.000 metri in su e una acquatica che si rifugia sotto la superficie marina. E proprio le possibilità di un’UNG (consentitemi di inventare l’acronimo che sta per Umanità Geneticamente Modificata) viene discussa da Paura nel suo saggio ricco di spunti e idee, come pure le ipotesi di adattare le piante e gli animali che ci servono perché si adattino al mondo che abbiamo rovinato. Ipotesi che partono dalla tipica mentalità can-do americana, secondo la quale curare o aggiustare è sempre meglio che prevenire; anche perché nella riparazione del danno che hai causato magari ci sarà ancora un’opportunità di fare i soldi (e qui ci si ricollega al racconto iniziale di Trudeau).
Nel complesso, una lettura quantomai attuale e interessante; non molto rassicurante, certo, ma rassicurare chi si trova sulla strada della distruzione vorrebbe dire incoraggiarlo a distruggersi. Almeno questo, risparmiamocelo.
(Considerazione conclusiva sulle traduzioni, generalmente dignitose e abbastanza leggibili: alla traduttrice di Silverberg, Francesca Secci, vorrei solo far notare che Dust Bowl, a p. 180, non si traduce, essendo un toponimo americano ben determinato; e che a p. 182 pain in the ass non si traduce con «dolore al culo». Ma si sa, le sviste capitano a tutti…)