La condizione del disadattato

Tommaso Pincio, Il dono di saper vivere, Einaudi, pp. 195, euro 14,87 stampa, euro 9,99 ebook

Un giovane uomo, solo nella cella di un carcere, pensa. È l’unica cosa che gli è possibile, riflettere sulla vita e sul modo di viverla. Pensa agli esseri umani. A quali aspettative ciascuno si aggrappi per conquistare una vita soddisfacente. Si tratta di talenti da esprimere per «realizzarsi»? E’ una questione di «destino»? No, niente di tutto questo: per farcela, bisogna aver ricevuto in dono la capacità di «saper vivere».

La frase non è scelta a caso, è una citazione da Bernard Berenson, influente storico dell’arte del diciannovesimo secolo, che la usa «contro» Caravaggio per accusarlo di una grave mancanza: tra tanti doni che egli possedeva, non aveva avuto quello del saper vivere.

Allora il vagabondaggio del pensiero del detenuto prende una direzione precisa e un altro racconto ha inizio. È possibile che anch’egli fosse sprovvisto di quel dono? È possibile che un uomo senza talento e senza particolari qualità, come si percepiva lui stesso, avesse in comune con Caravaggio proprio questa grave e importante mancanza? Non resta che verificare. Scopriamo così che la persona detenuta è competente in storia dell’arte – ha studiato in Accademia – conosce le biografie di molte figure importanti del contesto artistico e culturale, conosce bene la città di Roma nel periodo rinascimentale. Ha lavorato in un galleria che si affaccia in piazza della Pallacorda, dove Caravaggio sferrò una coltellata sulla coscia di un rivale che poi morì dissanguato.

Ci sono tutti gli elementi per potersi fidare del narratore e iniziare a seguire molti degli accadimenti che caratterizzarono la vita di quello che chiama il «gran balordo». Una definizione che è anche un omaggio alla letteratura e ai non romani che hanno conosciuto Roma meglio dei romani stessi, come Gadda, il «gran lombardo».

Tra strade, piazze, vicoli, fontane, palazzi e osterie, la Roma del XVI secolo diventa protagonista insieme ai suoi abitanti, gli straccioni e i diseredati come i nobili e i privilegiati. Sono i luoghi e i palazzi che si trovano ancor oggi. Ed è opportuno che la narrazione accorci le distanze temporali e faccia apparire tutto come presente, come contemporaneo. Molte vicende del Caravaggio artista sono date per scontate. Nella narrazione si incontrano soprattutto esseri umani in carne e ossa, personaggi che sembrano usciti dai suoi quadri, personaggi che colpirono la sua attenzione e la sua sensibilità: opportunisti e volgari, nobili, colti e magari anche un po’ meschini. Predestinati dalle «giovinezze risolute», oppure persone fragili come fuscelli, tra cui il narratore annovera se stesso.

Poi c’è il denaro. Per una galleria d’arte, un fatto importante. Ci sono le banconote da centomila lire, dette appunto le Caravaggio. E ci sono le disuguaglianze tra ricchi e poveri, fatte non solo dalla quantità di soldi ma anche dalla loro qualità: «quelli dei poveri avevano l’odore e l’aspetto di una vecchia baldracca. Quelli dei ricchi ti inebriavano con il profumo di una fanciulla in fiore».

Tra il narratore e il Caravaggio si gioca un confronto all’inseguimento degli elementi comuni che, indipendentemente dal grande talento dell’uno e della pochezza dell’altro, possano portare a individuare la radice di questa incapacità di stare al mondo. Strada facendo, tra i due, emerge poi una forte differenza. Se, come già detto, il primo è definito il «gran balordo», il narratore rivela di portare sulle spalle il poco piacevole nomignolo di «malinconia». Una condizione dell’animo e dello spirito che ha la sua conseguenza sociale nell’essere disadattati, e che sul piano metaforico lo porta a coincidere con i ruderi di Roma, città del disincanto.

Le vicende del Caravaggio allora procedono in totale autonomia dal suo autore. E il libro costringe il lettore ad un’altra virata, dal diario di vita quasi si passa al saggio. Entrano in scena fino alla ribalta i personaggi che si muovevano intorno al grande artista. Quelli che ne scrissero la biografia, tra cui Giovanni Baglione e quel famoso Berenson, vero maestro nell’arte di saper vivere: ebreo convertito al cattolicesimo, omosessuale sposato con una fanciulla di famiglia quacchera, povero che conduceva una vita da ricco aristocratico, lituano naturalizzato americano. E allora tra storia e finzione, tra volti naturali e maschere, tra i meccanismi del mercanteggio e i passaggi di denaro cogliamo il nocciolo della sofferenza e della distanza dell’uomo in prigione – e di Caravaggio – rispetto al resto del mondo. La condizione di disadattati diventa un paradigma all’interno del quale non ci si può neanche riparare, che può farci perdere la vita e non sappiamo se ci salva l’anima.

Ma Pincio non ferma le sue parole sul ciglio del nichilismo. Fa un passo a lato e postula le condizione di una (flebile) speranza.

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