Alessandro Vietti, Il potere, Zona 42, pp. 320, euro 14,90 stampa, euro 4,99 ebook
recensisce UMBERTO ROSSI
Ve lo dico subito: questo è un romanzo di fantascienza. Fantascienza italiana, e – a differenza di tanto, troppo prodotto nazionale – scritta con competenza e sicurezza. Scritta allo stesso modo in cui i nostri migliori praticanti del genere in passato creavano i loro romanzi e racconti: prendendo i moduli, le figure, i dispositivi della fantascienza americana, inglese, francese, impadronendosene e poi riutilizzandoli per i loro fini. Allo stesso modo operavano i registi italiani di genere (da quelli degli spaghetti western a quelli dei poliziotteschi): rubavano l’arte, la mettevano da parte e poi la reinventavano in modi inediti. Massimo maestro di questa forma di trovarobato artistico in campo cinematografico, Sergio Leone all’inizio della sua carriera.
In questo caso Vietti ha modelli evidenti, che dichiara nell’appendice al suo romanzo: da un lato tutta la tradizione distopica, da Zamjatin a Orwell e successiva; dall’altro l’immaginario dei supereroi, DC Comics in primis, però con quell’attenzione ai tormenti personali dei vari eroi in costume che è un classico degli universi Marvel. Distopia più supereroe uguale V come Vendetta, l’opera che ha lanciato Alan Moore a livello mondiale (scusate, ma V per Vendetta è uno sbaglio, è errato, è un orrendo calco dall’inglese, e io non lo accetto). Nel caso di Vietti però, distopia più supereroe prende una via completamente diversa da quella imboccata da Moore; una via, ci tengo a sottolineare, del tutto italiana.
Siamo in un’Italia retta dal Governo della Società. Vietti non ci fa lezioncine di storia futura o alternativa; il funzionamento di questa Italia basata sul consumo obbligatorio viene fatto capire pezzo per pezzo, un dettaglio dopo l’altro, per arrivare a comprenderne il meccanismo solo dopo che si sono lette parecchie pagine della vicenda. Al centro della scena sta il protagonista e narratore, che è stato arrestato per aver provocato la morte di 47 persone (ma non ci viene rivelato subito come, né perché); mentre è detenuto in attesa di giudizio, scrive la sua storia per un agente letterario privo di scrupoli che si è assicurata l’esclusiva del suo memoriale. Il nostro supereroe, o supercriminale (a seconda dei punti di vista) è ormai conosciuto da tutti, è il mostro sbattuto in prima pagina, e ovviamente non può esimersi dallo scrivere l’instant book che venderà a carriolate, pompato dal baccano mediatico attorno al suo caso.
Supereroe, dicevamo; dotato di un curioso superpotere, certamente inedito rispetto a quelli dei suoi colleghi DC Comics o Marvel che siano. Letteralmente, il protagonista de Il potere, scusate la volgarità, fa cagare. Può innescare un micidiale smottamento intestinale in chiunque abbia davanti, anche in più persone alla volta (come nell’esperimento televisivo che finisce tragicamente e provoca il suo arresto), anche a distanza, anche in qualcuno che neanche vede e conosce. Si tratta di un potere grottesco, ma in fin dei conti alquanto efficace. Non causa la morte, ma una catastrofica perdita di dignità – che in certi casi può essere anche peggiore della morte. E comunque consente al nostro supereroe all’italiana di disabilitare chiunque gli si pari davanti. Provatevi a combattere quando siete preda di un attacco di diarrea esplosiva, se ci riuscite.
Il romanzo ripercorre la vita del supereroe, ci racconta come scopre la sua disgustosa capacità, come impara a controllarla. E proprio l’aver ricostruito questo percorso fa de Il potere un romanzo solido e ancor più inquietante; perché il suo protagonista è fin troppo credibile, fin troppo umano, fin troppo reale. Un po’ come l’io narrante di un classico della fantascienza americana, Morire dentro (1972) di Robert Silverberg, dove un telepatico racconta la storia della sua vita, nella quale il superpotere che ha è più una condanna che una benedizione. Ma attenzione: per quanto l’idea di base sia assai simile, il modo in cui lo sviluppano Silverberg e Vietti è ben diverso. Il primo insegue Philip Roth; il secondo ci regala un’amarissima commedia all’italiana, di quelle che ci vorrebbe Ugo Tognazzi a interpretarla – o forse Nino Manfredi.
Comunque sia, per quanto l’idea di un totalitarismo consumistico non sia nuovissima (Huxley ci aveva pensato prima della seconda guerra mondiale, Ballard l’ha reinventato nel suo canto del cigno, Regno a venire), Vietti la ribalta mettendo al centro il suo supereroe all’italiana, e così facendo opera un ritorno del rimosso che ha qualcosa di vagamente negromantico. Scusate un po’, ma chi è che dominò l’Italia facendo somministrare generose dosi di lassativo ai riottosi, negli anni Venti del secolo scorso…?