Una cosa va detta della casa editrice Neo, che ha sede a Castel di Sangro (AQ), ben distante dai tradizionali centri dell’industria editoriale: il coraggio non gli manca. Ci vuole coraggio, e non poco, per pubblicare un libro decisamente fuori dagli schemi come questo. Un tempo si sarebbe parlato di avanguardia, o di sperimentazione; io tenderei a usare un termine piuttosto scivoloso come slipstream, per indicare un’esperienza di scrittura come questa, al confine tra distopia, satira, surrealismo, con una piega forsennatamente grottesca e deformante.
All’inizio del romanzo abbiamo solo due personaggi: il narratore in prima persona, Simon, che dà l’impressione di essere piuttosto giovane, forse addirittura un ragazzo; e il Polacco, una sorta di padre-padrone che tratta Simon come un servitore. Vivono isolati in mezzo ai boschi, in una sorta di fattoria con bestiame e letame. Sembrano entrambi due spostati: Simon, che si sfoga sessualmente sulla gallina Mitropa; il Polacco, che quando alza il gomito si vanta di eroiche imprese nella Luminosa Guerra, elencando battaglie mai sentite nominare. Il lettore a questo punto si deve chiedere: ma sono in un presente alternativo? Oppure in un futuro non molto lontano? O questi due sono scemi, e il Polacco farnetica cose mai accadute?
Poi entrano in scena altri personaggi: una famiglia (padre madre bambina) nascosta in uno stabilimento abbandonato nella foresta, dove Simon si avventura un giorno, e che spia con curiosità. I tre si nascondono perché qualcuno sta dando loro la caccia. Non facciamo in tempo a interrogarci sul perché quelle tre persone siano braccate, che arrivano alla fattoria del Polacco degli alti ufficiali a bordo di un elicottero. L’uomo è invitato a tornare nella Capitale per condurre un grande progetto urbanistico. Ma allora non è un pazzo; siamo veramente in un futuro con inquietanti tratti distopici, o in un presente alternativo assai poco rassicurante…
Il resto della storia è quasi impossibile da riassumere, perché Calvisi l’articola in base a una grammatica narrativa che pesca più dai sogni, in purissimo stile surrealista, che dalle tradizionali convenzioni della distopia. E se distopia è, mi ricorda molto quella onirica, grottesca e velenosissima di Un milione tondo tondo, di Nathanael West; ma Genesi 3.0 la reinventa in chiave decisamente italiana. Posso solo dire che leggere questo libro è come salire su un ottovolante progettato da Marco Ferreri e Buñuel, con Franz Kafka a supervisionare i lavori. Tu sali e poi ti lasci portare in un crescendo di situazioni grottesche e allucinatorie, che non mi azzardo neanche ad accennare.
Eppure ogni tanto nello strampalato mondo della Capitale, diviso in zone sorvegliate dai militari, controllato da uno sgangherato regime autoritario, nel quale si snoda l’odissea di Simon tra un botto e l’altro (qualcuno fa scoppiare bombe di tanto in tanto) riemergono a tratti frammenti di una realtà che ci è assai più familiare. A p. 130 si afferma che l’economia va bene; lo attestano «ristoranti pieni, località turistiche prese d’assalto» (non l’abbiamo già sentita?). A p. 144 «un manipolo di giovani stravaccati giocava con dei cani denutriti. Uomini e animali, luridi alla stessa maniera»: sono punkabbestia come se ne vedono in giro in tutti i quartieri alternativi o nei centri sociali delle nostre città. E a p. 145-146 la scena comica con il tabellone di un ufficio amministrativo che attacca a «sgranare sequenze di numeri incongrui, il quindici, poi il seicentoventidue, poi il quarantotto e il ventinove quasi in simultanea» sembra presa dalla vita quotidiana di una ASL o di un grande ospedale (per non parlare degli uffici postali).
Insomma, può essere anche questa una favola, per quanto stralunata, che parla di noi lettori.