In questo romanzo di Osborne il doppio gioco viene azzerato da quei selvaggi incontri d’azzardo che sono il baccarat e il baccarat punto banco (“la regina carogna e puttana dei giochi di carte da casinò”), dove la presunta intelligenza di un giocatore viene sconfitta dalla più corrosiva azione della fortuna. Osborne definisce il proprio eroe “piccolo”, ma quando l’assalto a questi oscuri (le tenebre della notte, a Macao, fanno sempre il loro gioco) e labirintici casinò arriva a mettere sul tavolo milioni di dollari, sia americani che di Hong Kong, ci si chiede di cosa stiamo parlando.
Lo sa bene Lord (falso) Doyle, originario del New England, mentre entra ed esce dall’aria fetida, a tratti frizzante data la vicinanza di mari tempestosi, di Macao. Se in Cacciatori nel buio l’avventura avveniva tutta nelle putride e ammuffite strade e paludi cambogiane, nella Ballata di un piccolo giocatore il protagonista attraversa guai seri completamente asserragliato in alberghi dove i piani bassi e i sotterranei sono occupati da casinò d’ogni genere, d’alto e basso bordo, e dove la riverenza cinese nasconde torbidi disegni. Champagne e alcolici assaltano il cervello e le tasche degli avventori, Doyle punta il proprio denaro come se tenesse fra le mani un revolver puntato alla tempia. E, come sempre accade nei romanzi di Osborne, sembra che al fianco del giocatore se la spassi un fantasma, un doppio, tutto teso alla rovina del compare.
Qui non c’è più la guerra indocinese, ma il demone Kurtz continua la sua nefasta azione tra l’esoterico e il sanguinolento commercio. Non sorprenda, siamo ancora nel labirintico Oriente, basta sostituire le foreste del delta del Mekong con le ballardiane foreste di cristallo del terzo millennio. E i guai lo, i Westerners, gli occidentali, come sono definiti dai cantonesi gli europei finiti lì (letteralmente uomini-fantasma), spesso si trovano inguaiati in traffici sconosciuti o, come in questo caso, in azzardi disastrosi per l’eventuale malloppo arraffato in patria.
In una nuvola appiccicosa di cortesie, di cibi e vini elargiti all’Hotel Lisboa, l’assorto Doyle perde e vince i propri soldi con un andirivieni simile a uno sconfortante misfatto, un’eversione che disturba nel profondo e che il grandissimo Osborne ci getta in faccia come nessun scrittore riesce trattando analoghi argomenti. L’atmosfera delinquenziale (del tutto legale, sia chiaro), vanitosa e malata fin dentro alle budella di croupier, assistenti e cortesissime hostess, viene spinta pian piano in luoghi dove il sogno sembra realtà e la realtà appare come una mistificazione da tutti accettata benevolmente.
L’incontro con la misteriosa e graziosa Dao-Ming muta le cose, e il romanzo vira verso zone dove le mappe non esistono più: il territorio si fa ogni giorno più fosco, il denaro compresso nelle valigette nere (Fleming e Greene se la ridono nel paradiso del thriller) passa di mano in mano alla velocità della luce, il sesso non ha quasi più importanza, il fumo del tè Oolong rinforza i corpi sfatti, e la vegetazione che dovrebbe essere lussureggiante diventa il caldo abbraccio dove rilasciare le membra, dove “Lord” Doyle assicura la propria eternità, in piena assonanza con i luoghi vissuti. Un guai lo trasformato dalle leggi locali in un’entità diversa, qualcosa che le antiche foreste tropicali riconoscerebbero se ancora esistessero nel groviglio di cristallo dei grattacieli.