Il 2018 è stato l’anno di Frankenstein. Questo romanzo, capostipite di un genere e capolavoro della letteratura inglese, venne pubblicato anonimo esattamente duecento anni fa. L’autrice, resa pubblica solo nella seconda edizione rivista del 1831, era la ventunenne Mary Shelley, nata Wollestonecraft Godwin. Il romanzo è nei cataloghi di praticamente tutti gli editori italiani e molte sono le novità su di esso, tra cui voglio segnalare almeno un volume edito da Lindau a fine novembre: l’edizione critica del romanzo, unica a presentare le due versioni del ‘18 e del ‘31 affiancate e confrontate per la cura di Sara Noto Goodwell. Ma io, in questo speciale Frankenstein di fine anno, sono qui per parlare di Bernie Wrightson, scomparso nel 2017, e autore delle illustrazioni di questa edizione integrale del romanzo, ottimamente tradotto da Simona Fefé.
Il suo nome è noto agli appassionati di fumetti o illustrazione degli anni settanta, ma forse oggi non è conosciuto come meriterebbe in Italia: dovrebbe invece essere scolpito nella mente di qualunque appassionato di disegno. Stiamo parlando infatti di uno dei maestri assoluti dell’orrore, se non addirittura il più grande di tutti, almeno a partire dagli anni settanta.
Wrightson esordisce professionalmente a vent’anni in una storia di tre pagine di «House of mistery» pubblicata nel 1969 e reperibile in italiano in una raccolta delle sue storie tratte da quella serie pubblicata da Planeta De Agostini nel 2009. Il suo stile è già riconoscibilissimo, enormemente espressivo, un’intrico di ombre e segni controllati, di figure allungate, di maschere di terrore. È l’inizio di una grande carriera che lo porterà a lavorare, anche se sempre da freelance e per progetti limitati sia per editori come DC e Marvel, sia per altre case editrici come Warren. Nei primi anni settanta abita nello stesso appartamento con altri tre grandi: Al Milgrom, Howard Chaykin e Walter Simonson e l’influenza reciproca è inevitabile. Ma tra i grandi artisti che gli diedero molto e che si possono riconoscere nel suo tratto ci sono Howard Pyle e Al Dorne per l’illustrazione e Al Williamson, Graham Ingels e Jack Davis per i fumetti (autori EC Comics e Warren). Gli anni settanta sono gli anni in cui si dedica a moltissime storie brevi, la forma in cui ha sempre eccelso anche per una certa lentezza nel lavoro e l’impossibilità di semplificare l’incredibile lavoro di pennino.
Il personaggio per cui sarà probabilmente ricordato per sempre lo crea con Len Wein: è Swamp Thing, in seguito ripreso da Alan Moore, per cui disegna la storia di esordio e i primi dieci numeri della serie.
Nel 1975 fonda The Studio, un loft condiviso con Jeffrey Catherine Jones, Michael Kaluta, and Barry Windsor-Smith. In questi anni Wrightson raggiunge le sue vette più alte nella tecnica e nell’espressività: sperimenta con tutti gli strumenti possibili anche contemporaneamente: dal pennino al pennello, dall’inchiostro acquarellato al pennarello fino all’uso della tecnica duotone.
In seguito collaborerà a più riprese con Stephen King (che firma l’introduzione di questo volume) per adattamenti e altri progetti come l’edizione illustrata (oggi di grande valore colezionistico anche nell’edizione italiana) di Unico indizio la luna piena. Con Jim Starlin (il creatore di Thanos, tra gli altri) realizza The Weird, Batman: The Cult nonché un divertente team-up con Hulk e La Cosa. Disegna anche uno Spiderman gotico, nelle sue corde, nella graphic novel Hooky. E non dimentichiamo una potente copertina per il secondo album di Meatloaf!
Ecco chi era Bernie Wrightson nel 1983, quando uscì questa edizione illustrata del romanzo della Shelley: un maestro. E questa fu sicuramente la vetta più alta della sua arte: 47 illustrazioni in bianco e nero che non si staccano dalla retina.
Sette anni di lavoro dedicati all’illustrazione di Frankenstein. Cose da pazzi, se non fosse che, lo disse lo stesso Wrightson, si trattava di un labor of love, un’opera dettata dall’amore. Non era propriamente lavoro. L’artista vi si dedicava nei giorni liberi dalle altre commissioni retribuite. Sette anni. Una follia (non possiamo non pensare al nesso!) come quella di Victor Frankenstein: ambedue consumati dalla passione. Ma quella di Wrightson fortunatamente non lo portò alla tragedia ma ad un irripetibile lavoro grafico, assolutamente fedele alle descrizioni del romanzo. Dimentichiamoci, se possibile, per un momento, di Boris Karloff. Wrightson si impose fin dall’inizio di rimanere vicino alla sensibilità ottocentesca del romanzo: i riferimenti sono infatti a Franklin Booth, J.C. Coll e Edwin Austin Abbey e l’obbiettivo è quello di produrre immagini “antiche”, che abbiano l’aspetto di xilografie o siderografie.
Il risultato è questo libro, felicemente riportato alle stampe a novembre da Mondadori per la collana Oscar Ink in un ottimo formato (cm 17 x 24), più efficace di quello di un Oscar normale. Credo che esistano pochi libri come il Frankenstein di Wrightson: un vero e proprio mito visualizzato senza che le tavole dell’artista possano interferire con il mondo di immagini personali del lettore. È, come nei capolavori dell’illustrazione, un mondo in aggiunta al mondo del romanzo, anch’esso presente e vivo come l’altro. Un’emanazione della parola scritta che non è mai una copia, mai ridondante. Illustrazione non come “spiegazione”, “semplificazione” ma come arricchimento, come illuminazione. Luce, anche se si tratta di oscurità, di ombre. Opere fatte di segni impercettibili, graffi. Di innumerevoli oggetti, alambicchi, flaconi, libri antichi e polvere, corde, scatole, provette, beute come in quella doppia pagina che mostra il laboratorio di Frankenstein che forse è il capolavoro di una vita.
Sono tantissimi, ancora, i tesori dispersi prodotti da Wrightson e che meriterebbero un grande catalogo in formato gigante o almeno una serie di antologie che riprendano i tanti lavori sparsi (l’incredibile portfolio su Poe è solo una delle moltissime opere da raccogliere, come anche il seguito di Frankenstein del 2012 in una degna edizione).
Non so, forse sono influenzato dalle atmosfere delle sue storie e dei suoi personaggi, dolenti e tormentati, ma credo che anche Wrightson, in un certo senso, sia stato tormentato. Angosciato lo è stato certamente dall’industria e dall’obbligo di piegarsi alle richieste dei committenti e degli editori. Ha dovuto lottare tutta la vita per realizzare i suoi desideri e obiettivi artistici. Con quest’opera ormai leggendaria Bernie c’è riuscito e noi indagheremo per sempre le sue immagini, ingordi di particolari e di segni. E quando avremo la sensazione di aver colto tutto, un nuovo dettaglio ci salterà all’occhio, qualcosa di nuovo, che prima non c’era, come se le opere fossero vive. Forse Wrightson, come Frankenstein, ha scoperto il modo per dare la vita a ciò che è inanimato. E l’ha data all’inchiostro delle sue tavole, per noi.
Questa recensione fa parte del FRANKENSTEIN DAY di fine 2018 (anno del bicentenario), assieme alla recensione di una raccolta di racconti di Thomas Ligotti, allo speciale sui fumetti italiani che rielaborano la Creatura di Viktor Frankenstein, al recupero di Frankenstein liberato di Brian Aldiss e all’itinerario di letture sulla Creatura (e sul dottore) preparato da Walter Catalano.