Bruxelles, 9 luglio 1873. Quella mattina, Paul Verlaine ha acquistato una pistola e dei proiettili e quando, nella serata, Arthur Rimbaud (1854-1891) gli annuncia di voler ritornare a Parigi, Verlaine gli spara. I due poeti si amano: è un amore appassionato intellettuale poetico erotico travolgente, travagliato e irreconciliato. Rimbaud, ferito al polso dal colpo di pistola dell’amante, resterà nove giorni in ospedale. Ma ritirerà la denuncia contro il suo amore che, a causa della sua omosessualità e delle sue idee comunarde, finirà comunque condannato a due anni di carcere.
In questa passione bruciante sboccia Une saison en enfer, che Rimbaud aveva cominciato a scrivere esattamente un anno prima, a Roche, paese natale di sua madre: un ritiro arcadico dove concepire la sua critica delirante alla società occidentale, sostanzialmente la sua ultima opera. Ha diciannove anni.
Una stagione all’inferno è uno stato permanente di agitazione febbrile, un movimento irrequieto, un attraversamento: dalla poesia alla prosa, dalla spasmodica ricerca dell’aulico all’abbandono alle parole del mondo, dalle strade alle bettole, dalla lucidità razionale all’ubriachezza, dall’invocazione a Satana alle disquisizioni sul Cristianesimo.
“Fui obbligato a viaggiare” scrive in “Deliri. II. (Alchimie del verbo)”, “ad allontanare gli incantesimi rinchiusi nel mio cervello”. La pazzia – sia latente sia manifesta – viene continuamente evocata, accarezzata e coccolata. E da una sorte di follia-prigione sembra proclamare l’evasione: “fiero di non avere né pace, né amici, che sciocchezza era mai”. Sradicamento e non appartenenza fanno della voce poetante del testo un esule nel suo stesso mondo.
In “Lampo”, terzultima di otto parti di cui si compone la Stagione, le contraddizioni esplodono: da un lato il trionfo del lavoro e dall’altro il logorio inevitabile con il corollario del “divertimento” (da intendersi come allontanamento). Da qui, forse, bisogna leggere l’ambivalenza della celebre dichiarazione rimbaudiana “Bisogna essere assolutamente moderni”: un’esortazione ad attraversare le contraddizioni e le lacerazioni di una condizione umana senza quiete. Ma nelle pagine dell’ultima parte intitolata “Addio”, questo attraversamento per vie artistiche sembra consegnarsi al fallimento e alla putrefazione: il lavoro della poesia non si è compiuto. “Ho creduto di poter conquistare poteri soprannaturali” scrive, ma “ho dovuto seppellire la mia immaginazione”.
Questa nuova edizione tradotta e curata da Carmelo Pistillo, unica nel suo genere nel panorama italiano, ci restituisce un Rimbaud se possibile ancora più moderno in un italiano fresco e attuale. Operazione non solo editoriale ma culturale necessaria che permette alla Stagione infernale di continuare il suo viaggio. Nel volume, corredato da un ricchissimo apparato iconografico – nel quale troviamo anche la foto della Lefaucheux calibro sette millimetri usata da Verlaine per sparare a Rimbaud! –, da un ampio ed esaustivo saggio introduttivo del curatore e da una puntuale bibliografia critica, c’è una sezione intitolata “Per una crestomazia rimbaudiana. Rimbaud letto oggi” che raccoglie ventiquattro interventi di poeti contemporanei, chiamati da Pistillo ad una testimonianza personale su uno dei testi più misteriosi e significativi della modernità. Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Elio Grasso, Elio Pecora, Renzo Paris e Paolo Ruffilli, tra gli altri, letteralmente provano a far luce nel testo del “Veggente”, creatore di “una rete di contraddizioni senza una via d’uscita che non sia illusoria” (Cucchi) che ci costringe a “fare i conti con disavventure della vita che sovente straripano nel mistero più fitto” (Grasso).
Paris, in particolare, racconta tre apologhi davvero significativi, tra autobiografia e Storia: Pier Paolo Pasolini che ordina a Dario Bellezza di tradurre Verlaine ma, disubbidendo, traduce proprio Rimbaud; i terroristi islamici rifugiatisi nel 2015 nella Charleville di Rimbaud, lui stesso severamente anti-occcidentale, per finire con l’essere scovati e uccisi; le parole scritte da Rimbaud ad un amico che gli riferiva della notevole circolazione delle sue poesie a Parigi: “Ah, la poesia! Una cosa da ragazzi”.
La Stagione all’inferno curata da Pistilllo riporta intatto lo stupore di un corpo a corpo con la follia inquieta e giovanile della poesia moderna: il fragore insensato di una deflagrazione le cui schegge si conficcano, dilaniandola, nella carne del lettore e della lettrice, con un’esplosione di significati imprevedibili.