Il grande merito politico del movimento nordamericano Black Lives Matter è stato quello di non limitarsi a una rivendicazione di corto respiro legata ai comportamenti della polizia. BLM ha immediatamente allargato il fronte di lotta verso i temi del razzismo, dello schiavismo e del colonialismo. È stato così che una fase storica che sembrava sopita nel passato più o meno lontano è diventata nuovamente di attualità. Gli scrittori e le scrittrici nere, anche in Europa, si sono conquistati la ribalta del dibattito politico e dei media. Si è discusso di molti argomenti e qualche statua ne ha fatto le spese.
In Italia, purtroppo, la faccenda, che pure rivestirebbe una grande importanza, è stata immediatamente soffocata all’interno di uno stucchevole dibattito in cui i media hanno costretto un innocente ma qualificato gesto simbolico come l’imbrattamento della statua di Montanelli. Vernice si, vernice no, e nessuno ha parlato criticamente delle nostre politiche coloniali. Sposa bambina figlia delle tradizioni locali oppure stupro di un colonizzatore sempre convinto della legittimità delle proprie imprese. E poi basta, tutto finito, ma sono temi su cui si tornerà a scontrarsi.
E così il razzismo, che ha una delle radici più significative nel colonialismo – e viceversa – per gli europei, sembra essere stato una parentesi di cui nessuno si è occupato in passato e nessuno si sta occupando nel presente, perché a nessuno interessa. Ma non è così. Fin dalla fine del Diciannovesimo secolo i comportamenti delle truppe coloniali in Africa sono stati oggetto di dibattito e di battaglie civili anche piuttosto intense. Un libro uscito di recente ce ne dimostra la forza e l’importanza.
Chi poteva immaginare di trovare Arthur Conan Doyle tra le persone più attive nel condannare crimini e misfatti del colonialismo? E invece lo scrittore inventore del cosiddetto “giallo deduttivo” e del mitico Sherlock Holmes, tra le sue non poche battaglie civili, spesso condotte attraverso i media dell’epoca, annovera anche un deciso e documentato intervento contro le atrocità che il governo belga e il re Leopoldo II perpetrarono contro l’inerme popolazione civile in Congo.
Il libro ha per titolo Il crimine del Congo ed è stato pubblicato poche settimane fa dalle edizioni Bordeaux.
Naturalmente non ci si deve aspettare un lucido trattato filosofico-politico contro il colonialismo e contro il razzismo. L’autore era inglese, molto vicino agli ambienti dell’establishment, e non poteva criticare in profondità una politica che stava facendo la fortuna del suo Paese e che, in linea generale, era considerata quasi “naturale” per le nazioni europee, tronfie nel loro etnocentrismo e arroganti per la loro forza militare.
Nel suo pragmatismo però il libro risulta essere uno strumento prezioso alle sensibilità contemporanee per vedere quali fossero i comportamenti e i risultati di tanta stupida e violenta arroganza.
Punizioni corporali molto frequenti, tra cui tagli di mani anche a donne, vecchi e bambini. Villaggi spopolati. Militari impreparati e spaventati (dal nulla, perché le popolazioni erano assai pacifiche e laboriose). Tutto per l’estrazione della gomma dagli alberi che veniva, naturalmente, eseguita dagli indigeni e che prevedeva livelli di sfruttamento inumani. Una piramide gerarchica che coinvolgeva anche i bianchi, spesso galeotti o ex galeotti, che venivano retribuiti ingiustamente ma che avevano il compito importante di controllare manu militari l’efficienza sul lavoro delle popolazioni indigene che venivano sottoposte a vessazioni di ogni genere, compreso stupri, torture, amputazioni eseguite anche da altri indigeni che il governo belga aveva selezionato e armato per compiere il loro vergognoso mestiere.
Testimonianze scritte e documenti originali si alternano nel racconto di Conan Doyle che “ascolta” viaggiatori, missionari, finanche alcuni indigeni e ufficiali, dell’esercito belga e di altre nazioni, come l’italiano Eduardo Baccari che con le sue relazioni ci restituisce una realtà crudele in cui “l’aria risuona delle urla di dolore e dei gemiti di numerosi indigeni”.
La colonia era diretta proprietà del re Leopoldo II e il suo “compito” era di rifornire quello che oggi noi chiamiamo, in Italia, il caucciù, italianizzazione per adattamento linguistico del corrispondente termine francese caoutchouc.
Il dramma di questa colonia fu talmente profondo che attirò l’attenzione di molti intellettuali dell’epoca. Uno era Mark Twain, l’altro Anatole France e finalmente il grandissimo Joseph Conrad che, proprio in Congo, ambientò uno dei suoi capolavori: Cuore di tenebra.
La lettura del libro di Conan Doyle ci è facilitata da un saggio introduttivo di Giuseppe Motta, professore associato in Storia delle relazioni internazionali presso l’Università La Sapienza di Roma.
In conclusione delle nostre riflessioni vale ricordare quella che fu la premessa “ideologica”, oggi potremmo addirittura definirla “comunicativa”, di tutta l’impresa coloniale belga, una missione che si autodefinì “benevola e filantropica conquista del Congo”. Mai la propaganda di regime smise di assumere questo atteggiamento ipocrita e arrogante, neanche di fronte alle pressioni di intellettuali e di religiosi. Troppo forte era la presunta superiorità della razza bianca. Atteggiamenti che lasciano un segno che va molto al di là dei fatti contingenti. Ricordare è doveroso, ma sarebbe inutile se i nostri comportamenti colletti non cambiassero. E poco male se qualche statua equestre capitombola e qualche altra subisce un simpatico maquillage.