“Il western inizia sempre dal suono degli zoccoli” Lo dice Mr. C, regista di fama internazionale e molto visionario che decide di girare un western a Venezia, dove arrivano le star, le maestranze, i costumisti, i tecnici e, naturalmente, i cavalli, i cavài, come sussurrano i veneziani. E subito si pone la questione dei cavalli, il cui sbarco si scontra con una burocrazia pervasiva, le proteste degli animalisti, l’ostilità delle autorità, una serie di coincidenze sfortunate, per essere, infine, parcheggiati sull’isola di San Secondo quando si scopre che sono malati.
Nel frattempo si susseguono eventi insoliti: si diffonde una muffa rosa, c’è una moria di pesci anormale, un gruppo di persone ruba venti costumi da cowboy per dar vita a un vero e proprio “Mucchio selvaggio” che sembra catalizzare la rabbia cieca e senza direzione “della vita nascosta fra le mura più guardate al mondo, ritratte, filmate”, di gente vera che vive in una scenografia dove “ha tutto sottomano e non può usare nulla.” Una rabbia e una violenza terragna che polverizzano la visione e le ambizioni del regista che tanto vuole “riformattare l’immaginario del pubblico, e allo stesso tempo (…) intercettare la vitalità dei luoghi e riportarla al presente”.
La vicenda si svela agli occhi del lettore attraverso la voce dei diversi personaggi su un doppio piano temporale, quello in cui la storia si dipana al presente, e quello postumo di cinque anni in cui una giornalista cerca di ricostruirla attraverso interviste. Fra le altre la voce di un ragazzino molto speciale, Momo, che più di tutti patisce il dolore dei cavalli e la voce dei cavalli stessi che fa da contrappunto a quella degli umani, una voce collettiva, quest’ultima, che: “noi, dire io non sappiamo”.
Quasi un giallo, un’indagine, in cui la verità sfugge ed è opaca, un po’ come in Rashomon di Kurosawa (che proprio a Venezia trionfò nel 1950 vincendo il Leone d’oro), ma più sfumato nelle intenzioni ideologiche della scrittrice. D’altra parte sono passati 70 anni!
La questione dei cavalli si forma davanti ai nostri occhi, in una lingua tanto complessa quanto limpida, che si “tiene” fino alla fine del libro sia attraverso il racconto polifonico, sia per accumulo e dispiegarsi di colori, rumori, suoni, elenchi di parole che cercano di avvicinarsi al loro oggetto precisandolo da tutti i lati, in un ritmo che si avvicina e si allontana, con una scrittura di grande sapienza letteraria e tecnica.
Così Venezia, la sua acqua e i suoi cieli, sono una larga campitura di colori che si sovrappongono in velature: è verde vegetale, giada, blu scuro-grigia, verde foglia-argento, grigio verde, verde viola, rosso scuro, con cieli neri, bianchi, bianco acido, ricoperti di una patina grassa. Anche l’interno dei cavalli è colore: “bianco con aree rosa e verdi chiaro, disegni splendidi della natura nelle vene e nelle pareti degli organi.”
Le parole si accumulano in elenchi senza pause o virgole (“fichi oleandri e viti felci tassi” ma anche “archi poggioli grondaie”…), sorta di cluster che ritmano musicalmente il testo, pieno anche di rumori (“voci grosse, feroci, tante consonanti” e poi i fischi e il bordone continuo del galoppo delle rotelle delle valigie dei turisti, l’urlo dei cavalli…) e di particolari ravvicinati (articolazione delle ossa, l’interno dell’occhio, le nocche delle mani, le posture) come in un quadro che mostra insieme il primo piano e il fondo quasi senza gerarchie.
Arianna Ulian sembra aver fatto suo lo sguardo di Momo che “ha imparato a guardare a fondo, pazientemente”: uno sguardo che abbraccia tutte le cose e porta con sé la responsabilità amorosa di proteggerle e preservarle; uno sguardo onnipotente che – nel caso di Momo – cerca di preservare in primo luogo sé stesso e il proprio posto nel caos del mondo.
E a proposito del rapporto fra sapienza tecnica ed artistica, bellissimo l’esempio tratto dalle sequenze fotografiche di Muybridge, pioniere della fotografia, che dimostra in una sequenza di foto, che il galoppo rappresentato artisticamente fin dalla preistoria “come una specie di volo del cavallo con gli arti in estensione avanti e indietro”, in realtà consiste sì in un alzarsi da terra, ma “i suoi arti sono raccolti sotto di lui. Raggrinziti, rattrappiti come dita distoniche.”
Un romanzo è bello anche se ti fa fare delle connessioni inaspettate e ti svela cose che non sapevi di sapere.
Lo sguardo che sempre abbraccia tutte le cose (quando Momo chiude gli occhi per stanchezza i colori delle cose persistono dentro l’occhio e ha timore che si sentano meno belle e necessarie perché trascurate) catapulta in un altro pianeta che è dentro il nostro: quello dei migranti e dei rifugiati, dei poveri che dormono sulle strade, obbligati a sviluppare, non tanto per amore quanto per necessità, una intelligenza “topografica,” ad avere uno sguardo totale e aumentato del luogo dove sostano.
Per bisogno il loro sguardo contiene tutto: la postura di un vigile (si sta avvicinando per chiedermi i documenti?) lo sguardo nella fila al supermercato, sta diventando nemico? quella porta sarà un bagno pubblico? Il cielo sarà clemente o pioverà? Quel che mi dice questa persona corrisponde a quel che la faccia mostra? Questa strada mi è amica o no? Il romanzo, per precisare, non parla di migranti o rifugiati.
La questione dei cavalli è il primo libro pubblicato dalla veneziana Arianna Ulian ed è anche il primo titolo della nuova collana fremen di Laurana Editrice, curata da Giulio Mozzi.