Il libro di Marco Sonzogni ci fa capire che siamo qui per questo, per scoprire le carte, e fra le carte, le parole privilegiate e gli oggetti lasciati a ricordo di amuleti e pegni che varcano il secolo. Clizia e Montale sono le parole (e le immagini) rimaste, eredi di corpi avventati e perduti, avventati e poi nascosti di nuovo in stanze remote. Dalla Liguria a Firenze, l’America e Milano, i reperti scambiati o evocati fra Eusebio e le presenze ispiratrici e familiari, sono sparsi a piene mani nella sua poesia giunta da una classicità consapevole e approdata, in seguito, ai Diari degli anni (Diario del ’71 e del ’72, Quaderno di quattro anni).
Nel male e nel bene, furono gli anni ’70. Che abbiamo vissuto e che mai come ora ci sembrano carichi di eventi tra lo storico e il personale. E la voce di Arsenio, doppio e portavoce per alcuni tempi del poeta, va a finire proprio dove la musa per eccellenza, la Clizia, sormonta la “snella” Irma Brandeis, folgorata dagli Ossi di seppia nel lontano 1933 (Contini: la Only Begetter Clizia era ben degna di essere Clizia).
I flashes sottratti all’oblio da Sonzogni, con una acribia talvolta vertiginosa, portano sempre a un dunque di rara verità, come se le vite dei personaggi avessero fatto uscire dagli armadi vecchie pellicole amatoriali. Considerati i continui depistaggi che Montale faceva subire agli amici e, soprattutto, alle donne “della sua vita”, festeggiamo un disvelamento che piacerà a chi porta con sé da sempre l’intero gomitolo montaliano (il “Romanzo” di cui spesso si è parlato), ma altresì si assisterà alla caduta, per alcuni, di qualche leggenda. L’opera spesso è molto più grande, ampia e profonda del suo autore. Ma i nessi, i conciliaboli, le relazioni sottratte ai diari, le abitudini più o meno confessate o sconfessate, alimentano le visioni dei posteri, mentre agli interpreti non parevano che un’eco da rimandare a sogni notturni.
D’altronde fu proprio la biografia del poeta a compendiare, ieri come oggi, la natura l’origine e lo sviluppo di molti suoi versi. La cronaca vissuta dalle muse montaliane è fatta di avvenimenti minimi, e di oggetti passati di sbieco nelle loro stanze. O nei ricordi. Che con Eusebio non si sa mai, ogni oggetto o ogni frammento sono quasi sempre avviluppati in una nebbia fatta passare per fortuita ma fortemente voluta. La memoria volatile è un inganno e serve a mettere in ombra i ficcanaso, a truccare le acque, a tenere lontano le invadenze biografiche.
“Il guindolo del tempo” (per inciso si trova in Lettera levantina, poesia accolta nelle Disperse de L’opera in versi, e che Irma Brandeis lesse soltanto quando ricevette, nel 1980 la summa montaliana), oggi, rimesta con un cucchiaino d’archeologo sul campo, andando a scovare nomi, appunti, rimandi, con rotta trasversale nel folto bibliografico esistente. E con le carte, trattate con occhio industrioso, si viene invitati a una colazione di vivande dolci e salate, avvertendo quel tono di voce sussultante che Montale portava con sé nei caffè fiorentini saturi di micidiali veleni letterari. Mentre nel riserbo ispiratore egli scriveva versi tuttora esigenti d’impegno e amorevole attenzione.
In compagnia del precedente libro di Sonzogni (La speranza di pure rivederti… Clizia, Montale e l’impossibilità di dirsi addio), si rientra nel riverbero per noi vantaggioso di un’epoca in cui anche attraverso minuzie quotidiane, filtrate dal rigore linguistico e da una difesa poetica estrema, i veri artefici della poesia sapevano costruire congegni perfetti e capaci di raggiungerci fino a oggi.