Arcane è il titolo della nuova serie animata Netflix ispirata al celebre MOBA (Multiplayer Online Battle Arena), targato Riot Games, League of Legend (2009), tramutatosi nel giro di pochi anni in uno dei protagonisti assoluti dei cosiddetti E-Sports. Per quanto culturalmente significativo, il fenomeno LOL non è di certo recente, né particolarmente originale. La fama e la rapida diffusione di League of Legend, infatti, pagano tributo a un gran numero di predecessori ‒ inscritti, in particolar modo, nel novero dei MMORPG (Massive Multiplayer Online Role Playing Games) da World of Warcraft a Team Fortress, da Metin 2 a Defense of the Ancients ‒, circoscrivendone e intensificandone le meccaniche agonistiche e cooperative ‒ paventando, al tempo stesso, l’ascesa di titoli quali Fortnite e Borderlands, dotati di ritmi e dinamiche altrettanto schizofrenici.
Non sarebbe errato affermare che LOL non sia altro che una sequenza, potenzialmente illimitata, di schermaglie dal retrogusto anfetaminico (un po’ come era accaduto, negli anni ‘90, con sparatutto in prima persona del calibro di Quake e Unreal Tournament). Non a caso, è proprio questa la caratteristica chiave dei videogame di questo tipo ‒ la vera rivoluzione a lungo termine posta da questo determinato genere all’interno dell’economia dell’attenzione. Non desta alcuna meraviglia, pertanto, che Arcane sia dotato sia di una grafica altamente qualitativa e coinvolgente, sia di un gran numero di sequenze di combattimento ibrido ad alta velocità (scene capaci di transitare dal corpo a corpo alle armi da fuoco, dagli scontri all’arma bianca all’uso di esplosivi e via dicendo).
Si tratta, in realtà, dell’ennesimo tassello all’interno di un puzzle più grande e degno di nota, ossia il tentativo, da parte di Netflix, di sfruttare una grafica a basso costo, ma capace di offrire cinematiche anatomicamente accurate e decisamente realistiche (una soluzione collaudata qualche anno fa in occasione dell’uscita di tre anime di genere “battle shonen”: Baki, Kengan Ashura e il reboot di Saint Seya, con risultati altalenanti e piuttosto primitivi).
Arcane, di fatto, rappresenta il coronamento di tale progetto: l’organon di un nuovo modo di intendere l’animazione digitale di massa. L’impiego di fondali maestosi e sovrabbondanti, di ispirazione Ghibli, rappresenta la più importante novità introdotta da Arcane, assieme a un livello inaudito (raro persino nei videogiochi di ultima generazione) di precisione e ricchezza tanto espressive quanto ambientali.
Vi è, tuttavia, un terzo fattore ‒ che, per certi versi, potremmo definire “collaterale”: Arcane si presenta, a tutti gli effetti, come un prodotto “di genere” ‒ per la precisione come un fantasy o, ancora meglio, come uno sci-fantasy. Un’opera così ricca di stimoli percettivi e concettuali, dal world building così vasto, da adombrare la propria fonte videoludica primaria
Alla fine della fiera, non sarebbe esagerato dire che Arcane sta a LOL, come un campo di alberi di mele sta a un singolo seme di mela isolato da ogni qualsivoglia contesto. Ci troveremmo, perciò, al cospetto di un’opera più o meno autonoma, legata a un determinato tipo di immaginario, nonché a tecniche e stilemi ancorati a una certa tradizione. E, tuttavia, Arcane scompiglia le carte in tavola, alludendo a tutta una serie di nozioni, topoi e manierismi lontani, al tempo stesso, sia dal grande pubblico, sia dal pubblico cosiddetto “colto”‒ composto, per lo più (è bene ricordarlo) da critici, umanisti e scrittori.
Analizziamo le ragioni di tale shift narrativo-cognitivo in quattro brevi passaggi.
Post-Modern Fantasy
Ci sono tre modi di intendere il postmodernismo.
Il primo prevede che il postmodernismo, semplicemente, non esista ‒ o sia solo un’appendice della modernità stessa. La maggior parte dei critici inerenti a tale posizione ne motiva l’abolizione sulla base di una certa fumosità del termine “post-moderno”. Cos’è, in fondo, un’epoca in cui ogni cosa è eternamente “post-qualcos’altro”, se non un buco all’interno della trama della civiltà umana?
Vi sono, tuttavia, altri due modi di intendere il post-moderno. Uno è quello proposto dal filosofo francese Jean-Francois Lyotard, nel suo La condizione postmoderna. Per Lyotard, il postmoderno non è che un immenso archivio di informazioni riguardanti ogni epoca, ogni luogo e ogni idea. Dinanzi a tale sterminata disponibilità di informazioni ‒ dischiusa dalla stampa, prima, e dal digitale, poi ‒ l’Occidente moderno avrebbe subito un cortocircuito, abbandonando di colpo, o per via traumatica (pensiamo, al contempo, alla cornice del dopoguerra), il tratto specifico della modernità stessa: la “Grande Narrazione”, ossia il progetto collettivo, di massa e, in fondo, sociale, di una società fondata su determinati set di valori.
Un terzo modo è quello, sempre francese e squisitamente “PoMo” (un modo snob di dire post-moderno), forgiato dell’inossidabile coppia filosofica Deleuze e Guattari. Sebbene lo stesso Gilles Deleuze sia stato uno dei principali detrattori del termine che stiamo analizzando, il suo lavoro (e quello svolto assieme al compagno d’avventura Felix Guattari), risulta determinante nella definizione di una “chiusura” storico- concettuale delle modernità. In questo caso, le parole chiave ‒ mutate da opere quali Anti-Edipo e Mille Piani ‒ sono “ibridazione”, “sconfinamento” e “nomadismo” (termini all’ordine del giorno nella società della speculazione finanziaria). Post-moderno è tutto quel che è in grado di uscire da sé; quel che è sradicato e non possiede un posto preciso nel mondo; l’ente o la cosa nel quale risuonano più universi, più spazi fisici e mentali.
Sfruttando tutte e tre queste definizioni, possiamo concludere che il postmoderno non sia che il non-moderno ‒ qualcosa che, di fatto, non esiste se non nella negazione di qualcos’altro: il piccolo e l’impercettibile (un po’ come nel caso dell’Odradek kafkiano); l’individuale dividuale, fratturato; l’oggetto sfumato, privo di contorni netti; il fuggitivo evaso dalla Storia con la “S” maiuscola.
Arcane è un’opera che si adatta alla perfezione a questo tipo di orizzonte. Non si tratta, di fatto, di un fantasy epico tradizionale, né di una narrazione legata a imponenti cornici cosmologiche o metafisiche. Ma non si tratta neppure di quel tipo di prodotto culturale che la critica alta ha (erroneamente) ritenuto lecito denominare “fantastico post-moderno” (un filone che va da un certo Cărtărescu fino ad Alain Damasio, Brian Catling e Susanna Clarke). A essere tradita, in questo caso, è la premessa ‒ o, forse, sarebbe meglio dire la promessa ‒ intellettuale di una narrativa fantastica slegata dalle connotazioni di genere; una narrativa totale, incentrata su una mescolanza di poesia e decostruzione, profondità mistica e decentramento, smarrimento e ironia.
A quanto pare, la critica letteraria e l’ambizione onnivora degli scrittori e delle scrittrici ha dimostrato, ancora una volta, di essere cieca ai fenomeni antropologici, scientifici e di costume che investono e influenzano lo sviluppo complessivo delle società. L’idea che vi possa essere una letteratura fantastica alta, colta, persino “trasformativa”, è un’idea morta sul nascere (un po’ come la nozione di “decostruzione”), destinata a perdere sempre più terreno nel corso del tempo (tanto per motivi tecno-economici, quanto per ragioni puramente letterarie).
Il postmodernismo di Arcane, pertanto, non è quello dei flussi di coscienza, delle allegorie psicotrope, dell’impersonalità soggettivata o dei viaggi gnostico-animici. Il postmodernismo di Arcane è (grazie al cielo) quello della nostra stessa attualità sociologica: un mix fumoso di culture ed etnie, di tradizioni e architetture, di classi e caste, di scienza e magia, all’interno del quale si muovono e operano individui interiormente ed esteriormente divisi ‒ anzi, frammentati.
I personaggi, di fatto, non si limitano a subire gli eventi narrati ‒ o meramente a partecipare a essi ‒ ma ne sono il motore, in un intreccio ambiguo e sincronico che ricorda molto da vicino la globalità locale del mondo contemporaneo. Ogni attore entra in scena portando con sé una o più contraddizioni che si dispiegano en vivo, influenzando l’ambiente circostante, senza tuttavia mai risolversi.
Il mondo di Arcane è una sintesi funzionale del nostro stesso mondo; un ritratto in grado di rendere la complessità del reale in un guscio di noce.
Non è davvero rilevante che le dinamiche tra i personaggi rispecchino dei topoi o dei cliché narrativi, giacché si tratta di un prodotto pop, dunque di massa, dedicato a un pubblico di young adult. Né importa che i personaggi incarnino delle figure delle quali la narrativa di genere ha abusato, poiché l’altro nome della banalità è l’“archetipo” (nel duplice senso psicanalitico e industriale): lo scienziato faustiano, il pagliaccio schizo, il poliziotto buono e quello cattivo, il mastermind criminale, il guerriero (o, in questo caso, la guerriera). Ciascuna di queste figure trova comodamente posto all’interno del quadro dell’alta modernità, anche detta, non a caso, epoca post-moderna. (Se non ci credete aprite un qualsiasi quotidiano o fatevi un giro su Wikipedia).
The Writers Room
Basta una prima occhiata superficiale per rendersi conto che Arcane non può in alcun modo essere l’opera di un uomo solo al comando. Tutto, ogni dettaglio, ogni singolo oggetto che fa da sfondo allo svolgimento dell’azione, rimanda a una complessità spesso solo accennata, e che si svolge quasi interamente fuori scena.
Dando uno sguardo ai credits si può notare che alla stesura della sceneggiatura e, presumibilmente, anche al processo di world building di Arcane, hanno partecipato ben sei diversi autori ‒ senza contare lo staff preesistente della Riot Games.
Questo genere di approccio narrativo, assai diffuso all’interno dei franchise legati a prodotti ludici e videoludici ‒ ma anche nel mondo dei comics statunitensi ‒ ha origini ben precise. Il primo marchio a fare uso di tale tecnica, denominata “writers room” (letteralmente stanza degli scrittori), fu la Game Workshop, all’inaugurazione della prima collana di romanzi dedicati al fortunato miniature tabletop wargame Warhammer.
Tra i più importanti autori alla direzione di una (e più) writers room troviamo, senza alcun dubbio, Dan Abnett (Doctor Who, 2000 AD, Guardians of the Galaxy e molti altri ancora). Ad Abnett si deve, a tutti gli effetti, l’invenzione di un metodo, sviluppato in occasione dei primi incontri laboratoriali dedicati alla stesura di una serie di soggetti per dei romanzi legati a Warhammer 40K. Come da egli stesso raccontato nel corso di diverse interviste, la richiesta da parte della Games Workshop di produrre una serie di romanzi, ispirati a un gioco da tavola, ha fin da subito prodotto tutta una serie di inconvenienti, in seguito tramutatisi in assiomi metodologici. Innanzitutto, è stato necessario reperire e radunare tutti (e intendo tutti) i materiali inerenti il gioco ‒ miniature comprese ‒ e studiarne accuratamente le caratteristiche. Solo allora ci si è potuti rendere conto della necessità di produrre una timeline; poi, un universo dotato di determinate leggi fisiche; poi, diversi sistemi solari; e, infine, città, architetture, strade, tradizioni, tecnologie, mezzi di locomozione, libri, canzoni, poesie etc. etc.
Questa. Esattamente questa è la portata e la mole di lavoro di un adattamento (letterario o cinematografico) di un prodotto ludico. Un compito ‒ e, in fondo, una responsabilità ‒ che nessun autore individuale potrebbe mai anche solo affrontare, figurarsi portare a termine.
Se, da un lato, la writers room è il prodotto di un mercato sempre a caccia di universi narrativi, cornici funzionali allo storytelling e world building di mercato, dall’altro, essa è l’unico strumento capace di raccontare e mettere nero su bianco la complessità.
Se la writers room è, senza dubbio, il dominio di un certo numero di “mercenari” ‒ appositamente o fortuitamente formati al solo scopo di costruire mondi for a living ‒ essa è, al contempo, lo scacco dell’“autore”, della “voce” e del “genio”, ossia di quell’individuo (immaginario) capace di forgiare, avvalendosi delle proprie sole forze, del suo talento e di tutta una serie di doti naturali, opere assolutamente originali ‒ ovviamente, sempre provenienti dalle insondabili profondità del proprio cuore o del proprio spirito.
DecoPunk / Salvage Punk
Il penultimo appunto riguarda il contesto narrativo di Arcane, sarebbe a dire il suo world building. Il prodotto finale della writers room, di fatto, è sempre un oggetto narrativo che si presenta, piuttosto inevitabilmente, come un patchwork ‒ la tessitura, più o meno disordinata, asimmetrica ed eclettica, di tutta una serie di ossessioni, passioni e competenze individuali.
Arcane pone lo spettatore di fronte a uno dei più maestosi esempi di “patchwork world” mai ideati. Nulla sfugge alle tentazioni onnivore dei suoi autori: fantasy, fantascienza, hardboiled, thriller procedurale, steampunk, romanzo di formazione e psicostoria si fondono all’interno di un calderone transculturale che pare essere il punto focale della cultura pop contemporanea.
Tra i termini coniati dal filosofo inglese Nick Land ve n’è uno ‒ ideato assieme all’urbanista Anna Greenspan ‒ che fa proprio al caso nostro: “DecoPunk”. Il DecoPunk si presenta, a tutti gli effetti, come un’evoluzione dell’Art Déco ‒ uno stile estetico composto, in egual misura, da strutture in ferro e in acciaio; ornamenti non funzionali, legati alla tradizione classica e alla rappresentazione naturalistica; da colori caldi e accoglienti; da un intenso impiego della figura umana. La principale differenza tra Déco e DecoPunk è che, nel caso del secondo, il riferimento non è più un singolo luogo posto all’incrocio tra due epoche (quella antica e quella moderna), ma l’intero mondo globalizzato. Nel bacino DecoPunk c’è posto per gli antichi templi ‒ ma anche per le loro riproduzioni più kitsch ‒ per i grattacieli, per i giardini e i parchi naturali, per l’orientalismo, l’arte africana, il neoclassicismo e l’arte concettuale, per gli obelischi e le cattedrali, per il landscape e la pubblicità immersiva ‒ spesso con confini labili tra ciascuno di questi ambienti e gli altri.
DecoPunk è sinonimo di megalopoli contemporanea; DecoPunk è Piltover, l’immensa città sprawl nella quale Arcane è ambientato. Con un’importante sottinteso: Piltover è una città lacerata, dotata di una verticalità spaventosa ‒ che rimanda, a sua volta, alla verticalità orbitale delle metropoli di opere quali la trilogia di Altered Carbon e il Neuromante, o alla duplicità urbanistica che si può incontrare nei lavori di Samuel Delany e China Miéville.
Esattamente sotto la ricchezza DecoPunk di Piltover, si sviluppa lo sconfinato slum di Zaum, una “sotto-città” che risponde a leggi, regole e formalismi del tutto differenti (seppur ordinati attorno all’onnipresente fulcro del potere tecnologico ed economico). È in questo regno del crimine organizzato che il “Déco” lascia il passo al “Salvage”, ossia al recupero, al riutilizzo e alla riappropriazione dello scarto, del rifiuto e dello spazio in eccedenza.
Powder, o “Jinx”, è l’icona attorno alla quale si dispone la nebulosa SalvagePunk di Zaum: una psiche fratturata e frammentata, tenuta assieme da un’innata inclinazione tecnofiliaca. Jinx, non a caso, incarna l’anima nomade, sradicata e iper-aggressiva del sottomondo urbano ‒ il cui unico mezzo di esistenza e sussistenza è rappresentato proprio dall’ingegno tecno-culturale, dall’assimilazione e dal perpetuo conflitto con le autorità egemoniche.
La tensione tra queste due differenti fenomenologie tecnologiche rispecchia l’essenza del mondo contemporaneo: da un lato, la singolarità che mescola e confonde i luoghi, le epoche e le forme di vita, all’insegna di una società del benessere esclusiva e corporativa; dall’altro, l’abiezione e l’emarginazione di uno strato sociale sempre più numeroso, costretto a fare i conti con condizioni di vita invivibili e al limite della sopravvivenza.
Rischio Esistenziale
L’ultima ragione per cui Arcane rappresenta un valido esempio di narrativa di genere contemporanea è l’attenzione posta dagli sceneggiatori al tema del “rischio esistenziale”, ossia della minaccia di estinzione posta da qualcosa nei confronti del mondo intero o di una determinata civiltà.
Non è un caso se, negli ultimi vent’anni, buona parte della narrativa di genere ‒ horror, fantasy e sci fi ‒ si sia concentrata sui temi dell’estinzione, del collasso sociale e della gigamorte. Crimine organizzato, lobby, cabale, associazioni terroristiche, teorie del complotto, associazioni memetiche e gruppi di interesse dominano, ormai, opere di autori del calibro di Django Wexler, Adrian Tchaikovsky, China Miéville, Jeff Vandermeer, Liu Cixin e James S. A. Corey e Richard K. Morgan (tra i più noti). Ciascuno di questi termini ruota attorno al concetto di “tecnologia trafugata”, una cornice narrativa a sua volta organizzata attorno a una serie di “scenari” (o what if) incentrati sulla scoperta, sul recupero o sul detournement di tecnologie dotate di un potenziale bellico palese o meramente epifenomenico ‒ ma sempre sufficiente a mettere a rischio l’esistenza stessa di una società o dell’intera popolazione umana.
Il sottotesto di tale predilezione narrativa può essere facilmente individuato nell’attualità, allo snodo tra l’accelerazione tecno-economica e la democratizzazione degli armamenti di distruzione di massa.
Arcane ‒ nella piena tradizione del fantasy classico ‒ ruota attorno alla magia. Tale magia, d’altro canto, risulta totalmente incomprensibile agli occhi di una casta di scienziati e mercanti interessati alla sua eventuale applicazione tecnica. L’estraneità di un simile potere, piegato al funzionalismo di tutta una serie di nuove tecnologie sperimentali, costituisce il punto di partenza per un’efficace ibridazione tra fantasy e sci fi, articolata dagli autori attraverso le contraddizioni di classe che innervano il delta DecoPunk di Piltover e lo slum SalvagePunk di Zaum.
A nutrire i conflitti e le problematiche che i personaggi di Arcane si ritrovano costretti a fronteggiare, di fatto, è il duplice campo di tensione tra la corporatività tecnomercantile e la criminalità organizzata. Due gruppi di interesse ‒ eticamente sfumati e per niente affatto monolitici ‒ che rimandano fin da subito lo spettatore alla complessità del mondo reale.
È importante sottolineare, infine, che la spirale di violenza, follia ed errori alla quale assistiamo nel corso della trama è l’effetto (purtroppo più che concreto) dello svolgersi di tali insanabili contraddizioni.
L’idea alla base del world building di Arcane appare chiaramente ispirata alla crescente incomprensibilità delle tecniche e delle tecnologie sviluppate dal ‘900 a oggi ‒ il nucleare e la meccanica quantistica, i supercomputer e le intelligenze artificiali, i big data e il world wide web ‒ e che sembra destinata ad accrescersi nel futuro prossimo. Cosa significheranno, per la specie umana in quanto tale, il viaggio iperspaziale, l’antimateria, l’IA forte, le nanomacchine, la super-simulazione, la blockchain e via dicendo? Quali saranno gli enigmi offerti dalle tecnologie del futuro, e quali i rischi?
Quest’ultima, fugace considerazione chiude questa serie di brevi riflessioni, con l’augurio che un prodotto di consumo ‒ ideato e sviluppato da una grande corporazione ‒ possa non solo divertire e intrattenere (come fa, al di là di ogni dubbio), ma anche offrire degli strumenti utili a muoversi all’interno della complessità di un mondo ‒ o, forse, di un’intera epoca ‒ sull’orlo del collasso. Un’epoca nella quale i temi affrontati da Arcane risultano ogni giorno più rilevanti e insormontabili, a discapito di un escapismo sempre più diffuso, radicato negli ideali spirituali e pseudoreligiosi di un “innerscape” destinato a estinguersi assieme alla modernità borghese e occidentale.