Gipi, La terra dei figli, Coconino Press/Fandango, pp. 150, € 19,50 stampa
Gipi, al secolo Gian Alfonso Pacinotti, non ha ormai bisogno di alcuna presentazione. Più di una decina di libri alle spalle; un paio di film; una candidatura di finalista al Premio Strega nel 2014 che mise in imbarazzo i tutori del sacro ordine delle Patrie Lettere, rischiando di costringerli a conferire un premio letterario a un graphic novel; una serie di video esilaranti e intelligenti – da lui prodotti, diretti e interpretati – reperibili sul web; e chissà quante altre cose ancora. Al Centre Belge de la Bande Dessinée di Bruxelles – il maggiore museo del fumetto in Europa – l’estate scorsa c’erano due interi saloni dedicati solo a lui. Un fuoriclasse dunque.
Ma, come avesse dovuto correre con un cavallo troppo favorito all’ippodromo, per questa sua ultima opera del 2016 Gipi ha preferito fare l’handicapper di sé stesso, precludendosi volutamente due degli elementi principali della sua fortuna, per sfidare critica e pubblico su un terreno a lui nuovo. I meravigliosi acquerelli, i colori sfumati, che hanno caratterizzato tutte le sue opere precedenti (esclusa una parte di LMVDM: La mia vita disegnata male, del 2008, che come da titolo doveva essere, per l’appunto, «disegnata male»… si fa per dire) vengono abbandonati per essere sostituiti dal tratto sobrio di un plumbeo ed espressionistico bianco e nero.
Soprattutto però, ancor più che stilistica, l’innovazione è tematica: niente più autobiografismi, ma una storia inventata, un racconto vero e proprio, agito da personaggi immaginari che non avessero proprio nulla in comune con lui, Gipi, che già ci aveva squadernato con delicatezza e profondità le questioni private della sua gioventù punk, dell’eterno languore della vita in provincia, del tortuoso e amorevole rapporto col padre, dell’eredità di memorie familiari, tristi e preziose, legate alla guerra, e perfino dei suoi problemi erettili.
Questa volta invece il fumettaro pisano ci proietta in uno scenario molto lontano nel tempo e nello spazio, un contesto che nelle mani di un autore meno attento, emotivo e intenso di lui avrebbe rischiato probabilmente di risultare scontato. La fantascienza post-apocalittica, per quanto suggestiva possa essere, è di sicuro un tema abusato: se avete visto, tanto per fare un esempio recente, Mad Max: Fury Road di George Miller – che, detto per inciso, per me è un capolavoro nel suo genere – capite cosa intendo. Bene. Gipi, saggiamente, si è tenuto lontano mille miglia da tutti – o quasi – gli immaginabili stereotipi del filone o li ha utilizzati decentrandoli, aggirandoli, spiazzandoli, stilizzandoli in una prospettiva ellittica che li ridefinisce completamente.
La fenomenologia descritta è tutta interiore, gli aspetti esterni – sui quali normalmente la cosiddetta fantascienza dovrebbe focalizzarsi – sono ridotti al minimo: non sappiamo esattamente cosa ha portato il mondo alla fine e non vediamo neanche molto della devastazione esteriore avvenuta (se non specchiata nelle relazioni, nei caratteri e nell’aspetto dei personaggi). Tutto si svolge su un lago dalle acque infide e velenose, sulle sue rive, in capanni o palafitte fatte di travi e legname di riporto, su barche, in mezzo a canne e paludi. Non so se Gipi lo abbia mai visto, ma a me questo scenario lacustre così desolato ricorda un capolavoro della cinematografia giapponese girato da Kaneto Shindō nel 1964, Onibaba: la storia è completamente diversa ma gli elementi figurativi sono fascinosamente simili. Anche lì, nel Giappone feudale descritto dal film, come tra i sopravvissuti del futuro cataclisma di Gipi, l’innocenza e la violenza coesistono, si alternano, s’invertono e si scambiano.
La terra dei figli torna a parlare soprattutto di sentimenti e di rapporti umani, autobiografismo o no l’autore – per fortuna – non si smentisce. Un padre (che ha il volto di Gipi stesso); due figli, cresciuti alla penuria e alla necessità; il diario in cui il padre continua ad annotare i suoi pensieri, ma che è incomprensibile per chi, come i figli, non ha potuto imparare a leggere dopo la fine della civiltà (per ben dieci pagine – mentre uno dei ragazzi sfoglia invano il quaderno, cerchiamo anche noi, senza trovarlo, un senso fra caratteri incomprensibili e vediamo attraverso occhi analfabetizzati); e, a sovrastare tutto, l’incombente fantasma del passato con tutto ciò che è morto e porta alla morte – il mondo dei barbari cannibali che parlano come idioti echeggiando ancora il gergo del web, fatto di giga di fiko di like (scritto làic), ecc. – e la prona accettazione di un presente efferato.
I ragazzi compiranno la loro scelta, come farà il personaggio del Boia, rifiutando finalmente il suo ingrato ruolo: la vita non può essere solo spietata lotta per la sopravvivenza, ma anche sacrificio, lacuna che faticosamente si riempie, vicinanza ai propri simili, sentimento di unione e speranza. E’ questa l’unica eredità che vale la pena conservare: i ragazzi, ora cresciuti, lo scopriranno alla fine, cercando altri orizzonti spaziali ed emotivi. «Forse dall’altra parte del lago c’è gente a modo», concluderà la piccola schiava che uno dei due fratelli ha salvato, scoprendo forse l’amore e la compassione, e la Strega – scelta come surrogato di madre dall’altro – gli donerà l’unica lancinante carezza che il ragazzo abbia mai conosciuto. Un grande spazio bianco e vuoto chiude l’ultima inquadratura.
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