Accompagnati dal chiacchiericcio antropomorfo sull’ “intelligenza artificiale”, riversato nella narrazione mediatica, siamo entrati nell’era dell’automazione cognitiva. Al centro del dibattito – tecnologico, economico, normativo – sono oggi i modelli software generativi carburanti dai big data, che la fase precedente dei social aveva già identificato nella strategia. Al di là di un’intelligenza che non è intelligenza, riconosciamo una potenza combinatoria non limitabile, una risorsa opaca, non neutrale, che si proietta sul nostro sempre più predicibile futuro. Ma l’orizzonte delle AI, dietro allo spettacolare scontro geopolitico – tra Usa e Cina, Occidente e resto del mondo – aiuta a rilevare anche i segnali deboli ma profondissimi di un confronto tra diverse culture e aspettative storiche. In “Antropologia per intelligenze artificiali” (D Editore, 400 pagine, €20) Filippo Lubrano, ingegnere gestionale, giornalista e scrittore, segue il riflesso di queste diverse antropologie attraverso i modelli tecnologici, societari e operativi attuali, avvalendosi anche di una consolidata familiarità professionale con il mondo dell’innovazione asiatico e cinese. Pubblichiamo di seguito un breve estratto del libro di cui ringraziamo l’editore. (fm)
L’innovazione dalle periferie dell’impero: un modello esportabile
La principale lezione da imparare qui è che centri di innovazione altri, alimentati da altre motivazioni, potrebbero in futuro condurre a sviluppi tecnologici del tutto sorprendenti. Non è solo la geografia dell’innovazione che potrebbe stupirci, ma il fatto che l’innovazione stessa potrebbe essere mossa da motivazioni molto lontane dal pensiero ortodosso della Silicon Valley.
L’abbassamento progressivo delle barriere all’ingresso nel mondo dell’innovazione fa sì che, in un futuro, sia lecito aspettarsi che un cattolico possa sviluppare delle app basate sui dieci comandamenti e che queste possano rapidamente espandersi magari nelle comunità religiose delle Filippine e poi in America Latina. O che la ricerca e sviluppo di Scientology si inventi chissà quale meccanismo di catalogazione che possa poi trovare applicazione concreta anche in altri luoghi e per finalità ben diverse da quella iniziale. È questa educazione mentale a nuove sorgenti di innovazione che va allenata per essere pronti a cogliere gli input provenienti potenzialmente da ogni angolo della società civile.
L’innovazione, come un dio laico, è ancora nei dettagli. Esistono altre ragioni che giustificano l’accettazione su così vasta scala di un sistema come quello dei Crediti Sociali, e molte risiedono nella sostanziale mancanza di fiducia tra persona e persona, ma anche tra persone e aziende. Un rapporto, quest’ultimo, minato alla base da alcuni scandali clamorosi, come la vicenda dell’azienda cinese che aveva aggiunto melamina al latte per bambini sconvolgendo l’opinione pubblica locale nel 2008. L’homo homini lupus hobbesiano, nato a qualche decina di migliaia di chilometri di distanza, pare aver attecchito benissimo anche nella cultura confuciana. Ecco da dove deriva quindi l’esigenza di avere dei dati oggettivi con cui sostituire il mancante rapporto di fiducia tra persone e aziende – poi estesosi anche oltre.
D’altronde, il sistema di rating non ci è affatto nuovo neanche in Occidente: è su quello che basiamo spesso la nostra fiducia nei confronti di aziende che non conosciamo, ma anche di persone. Così come in banca è necessario lasciare le proprie credenziali, e si passa attraverso un sistema di due-diligence in qualche modo simile a quello del Sistema di Credito Sociale, solo meno automatizzato, allo stesso modo quando abbiamo iniziato a comprare online su eBay ci fidavamo solo dei venditori con i feedback migliori; così come le “stelline” assegnate da utenti prima di noi guidano le nostre scelte quando scegliamo un ristorante guardando le recensioni su Tripadvisor, Google o Yelp, oppure quando dobbiamo affidarci a uno sconosciuto per farci riaccompagnare a casa usando Uber. In sintesi, come fa notare il filosofo tedesco di origine coreana Byung-Chul Han:
La forte richiesta di trasparenza rinvia proprio al fatto che il fondamento morale della società è diventato fragile, che i valori morali come la sincerità o l’onestà divengono sempre più insignificanti.
Al posto dell’istanza morale caduta in disgrazia, compare la trasparenza come nuovo imperativo sociale (1)
Come spesso succede, insomma, guardando da vicino le cose, non si scopre solo che nulla è normale, comprese le nostre abitudini; ma anche che nulla è del tutto incomprensibile, comprese le abitudini che di primo acchito reputiamo barbare. A ogni modo, lo stesso ottimismo tecnologico, o laissez-faire socio-politico, palesato nei confronti del Sistema di Credito Sociale, che ormai si sta radicando nella maggior parte del territorio cinese dopo una fase di test che ha coinvolto un primo numero di metropoli-pilota, ha portato la Cina a essere il Paese con il maggior numero di impianti di telesorveglianza al mondo, e non a caso quella con i maggiori produttori di sistemi di telecamere a riconoscimento facciale, capitanate dal gigante Hikvision. “Se non hai nulla da nascondere, non hai nulla da temere”, è il refrain che si sente pronunciare all’unisono dai cittadini a Hangzhou come a Chengdu, da Wuhan sino a Canton. E in un mondo dove la priorità sociale numero uno è quella di “non perdere la faccia”, anche la sola esposizione al pubblico ludibrio su dei megaschermi negli incroci stradali per avere attraversato col rosso può essere un deterrente capace di creare circuiti virtuosi. Almeno, dal punto di vista confuciano.
Dopo aver scoperto l’elettricità non c’è più molto da inventare
Nikola Tesla, Thomas Alva Edison: non sta a noi spartire i meriti o dire chi abbia inventato cosa. Quello che ci interessa analizzare però qui è cosa è successo dopo la scoperta dell’elettricità. Quando accadono cambi di paradigma di questo genere, le invenzioni che ne derivano a cascata sono sostanzialmente logiche conseguenze, più che grandi innovazioni. Dal tronco di un’invenzione epocale nascono infinite ramificazioni create da menti più orientate al business che alla speculazione tecnico-scientifica. Le vere, grandi invenzioni procedono spesso per folgorazioni casuali, o per errore. Le invenzioni più pure, quando avvengono, sono vergini da astuzie commerciali: sono figlie dell’amore puro per la scoperta. I grandi inventori hanno, almeno inizialmente, le stimmate degli scienziati, e spesso lasciano i proventi delle loro scoperte a un’altra categoria di esseri umani, più avvezzi alle urgenze dei negozi.
Questa cosa era vera nel XVIII secolo, con Franklin, e lo è ancora di più oggi, in un tempo in cui il processo di innovazione è molto cambiato. Una volta assimilata una scoperta, il processo di applicazione dell’invenzione ai vari ambiti di business è solo una questione di pratica spicciola: si inserisce l’invenzione all’interno delle varie nicchie di settore, e si aspetta che questa lavori e inizi a diventare quella che in economia viene definita cash cow, letteralmente la mucca da soldi. Quello che sta avvenendo in quest’epoca storica con l’intelligenza artificiale è qualcosa di molto simile a quanto avvenne con l’energia elettrica: se Data is the new oil, è altrettanto vero che AI is the new electricity. Così, come nel secolo scorso si procedette ad applicare l’elettricità a qualsiasi contesto industriale e civile, elettrificando le città, le case, le fabbriche, e così come destino analogo era toccato all’epoca della rivoluzione informatica, adesso la stessa onda investirà ogni ambito della nostra vita. È per questo che la prima guerra commerciale sinoamericana è iniziata proprio dal 5G di Huawei: perché è chiaro che è da questo settore e da questa tecnologia (insieme all’altra storia da seguire da vicino: quella dell’informatica quantistica) che deriveranno le grandi innovazioni dei prossimi decenni. Il 5G sta abilitando la rivoluzione dell’IoT, l’Internet of Things, che è già stata ironicamente battezzata Internet of Threats, dagli esperti di cybersecurity, consci che ogni oggetto che colleghiamo alla rete è una porta che lasciamo potenzialmente aperta agli attacchi informatici. L’Internet delle Cose connetterà ogni oggetto a Internet e abiliterà un flusso di dati ancora più enorme di quello già disponibile. La logica conseguenza, qui, è una sequenza di innovazioni e disruption trasversali a ogni settore, in una rivoluzione che per velocità e caratteristiche sarà senza precedenti.
La verità però è che queste innovazioni con la i minuscola non necessiteranno di grandi talenti né di grandi cervelli. L’artificializzazione che avverrà nei prossimi anni in tutti i settori sarà banalmente una questione più di costanza che di ingegno: si tratterà di applicare in ogni contesto, seguendo la matrice delle innovazioni ancora disponibili, ed evidentemente a marginalità decrescente, l’innovazione madre ai problemi di dettaglio. È difficile pensare a un’industry che non possa venire impattata da questo fenomeno, che può contare sul triplice vantaggio di ridurre sensibilmente i costi, aumentare l’efficienza e non necessitare di particolare manutenzione. Si tratterà solo di dare in pasto i dati corretti all’algoritmo, e poi di sedersi ad aspettare i risultati.
Per questo, e qui veniamo al punto principale della trattazione, i principali beneficiari del dividendo dell’intelligenza artificiale su scala globale non saranno i geni della Silicon Valley, ma gli smanettoni dei centri di sviluppo cinese. L’innovazione dei prossimi anni sarà appannaggio della logica di sacrificio del 996 (il codice con cui si descrive l’attitudine cinese di lavorare dalle nove del mattino alle nove della sera, sei giorni su sette), che sarà la più rapida a implementare le soluzioni nei vari ambiti, potendo attingere a data-pool e data-lake ben più ampi, e potendo sfruttare l’attuale vantaggio competitivo rispetto ai competitor del resto del mondo. Basti pensare che mentre avveniva il roll-out del 5G in occidente, a Pechino stavano già da tempo lavorando sul protocollo della generazione successiva, il 6G.
L’innovazione cinese può anche contare sul grado di encomiabile trasparenza degli sviluppatori etici che siedono in California – un nome su tutti, OpenAI, in cui hanno investito tra gli altri anche Microsoft e Elon Musk. Come suggerisce il nome, OpenAI rende pubbliche le proprie innovazioni, come ad esempio ChatGPT, forse l’algoritmo più avanzato in assoluto in ambito linguistico e conversazionale al momento in cui questo libro viene scritto. I cinesi conoscono bene questo meccanismo open-source e, grazie alla loro esercitazione collettiva millenaria, sono preparati a questo momento. Non è un caso che una battuta che piace molto agli imprenditori cinesi quando viene chiesto loro quanto sono indietro rispetto ai loro competitor americani sia rispondere: “Sedici ore”. Ovvero, la differenza di fuso orario tra San Francisco e Pechino.
Nella fossa dei Dragoni: l’arena competitiva dell’innovazione cinese
Nella sterminata selva di startup dell’ecosistema cinese, per ogni Jack Ma ci sono migliaia di imprenditori senza nome, che stanno lavorando per efficientare ogni residuo angolo del Paese rimasto all’ombra dell’intelligenza artificiale. They’re not making headlines, come direbbero i loro colleghi americani, ma anche senza copertura mediatica, stanno collettivamente contribuendo a spostare il baricentro economico laddove era d’altronde sempre stato, fino a qualche secolo fa. L’arena competitiva cinese non ha nulla a che fare con quella americana, né col resto del mondo.
Nella Silicon Valley, esiste una sorta di tacito accordo, un patto tra gentiluomini, tra innovatori: chi arriva prima su una soluzione viene lasciato libero, almeno per un certo intervallo di tempo, di lavorarci in autonomia. È molto raro che si creino delle vere corse su un singolo campo d’innovazione in California: più verosimile che, se un’azienda riesce per prima a brevettare qualcosa su cui anche altri stavano lavorando, siano questi ultimi a virare altrove (il famoso pivoting, in gergo startupparo). C’entrano indubbiamente i carissimi avvocati statunitensi, ma esiste anche un codice che non vogliamo idealizzare – il film The Social Network ha già smontato a sufficienza il presunto candore della Silicon Valley – ma che è sicuramente inculcato in profondità nella cultura imprenditoriale americana.
Al contrario, in Cina, la cultura dello shanzhai ribalta totalmente questo assunto: chi è arrivato prima su una soluzione ha aperto una strada, ed è proprio da lì che inizia la competizione. Tramite reverse-engineering, “cultura del materasso” (la pratica per cui si dorme direttamente in ufficio, per perdere meno tempo nel pendolarismo) e pratiche più o meno ortodosse, si può aspirare a spodestare il first-comer e diventare la soluzione commercialmente più di successo anche se non si è quelli a cui l’idea è venuta per primi.
In questo senso, l’aneddoto forse più simbolico è quello della lotta tra Kaixin001 e RenRen. Siamo nel 2008, e RenRen, copia carbone di Facebook in Cina, si trova sulla sua strada un prodotto più solido, sotto il profilo della programmazione e della user experience: Kaixin001. Kaixin significa “felice” in cinese, e quello 001 finale derivava dal fatto che il fondatore non aveva trovato il dominio Kaixin.com libero all’epoca. Un errore di superficialità che si rivelerà fatale. Senza farsi troppi problemi, RenRen compra l’URL senza 001 e gioca sull’ambiguità della situazione, creando una copia perfetta di Kaixin001 e riuscendo di fatto a estorcere gli utenti confusi al suo concorrente. Come andò a finire la storia? Be’, Kaixin001, dopo aver fatto causa, ricevette sessantamila dollari come risarcimento da RenRen. RenRen, dal canto suo, nel giro di qualche anno finì per quotarsi alla borsa di New York raccogliendo 740 milioni.
Il mondo del web cinese è pieno di esempi non proprio alla Esopo come questo. Tutti insieme testimoniano una verità comune di cui bisogna prendere atto: qui, la competizione è spietata, e nessuno si può mai dire davvero al sicuro. È da questa giungla imprenditoriale che emergeranno le soluzioni che guideranno la transizione della nostra economia – e della nostra vita – dall’era informatica a quella a trazione IA.
NOTE
(1) Byung-Chul Han, La Società della Trasparenza, Nottetempo Edizioni, Roma 2014.