Tra i milioni di proletari e lavoratori italiani che, tra il 1870 e il 1950, lasciarono l’Italia in cerca di condizioni di vita migliori, vi erano anche numerosi anarchici: uomini e donne spinti non solo dalle stesse ragioni economiche degli altri emigranti ma anche dalla necessità di sfuggire a una repressione implacabile. Gli anarchici italiani emigrarono quindi in tutta Europa, negli Stati Uniti e in gran numero in Sudamerica, ma anche in URSS e – fatto forse meno noto – nei Paesi del Nordafrica, specialmente in Egitto e Tunisia. Arrivati all’estero, questi esuli si trovarono spesso doppiamente emarginati, in quanto stranieri e in quanto anarchici. Ciononostante, riuscirono a costruire una rete internazionale che rafforzò i movimenti operai locali, mantenendo al tempo stesso un legame stretto con l’Italia, sia dal punto di vista linguistico che sul piano della riflessione e dell’organizzazione politica.
La scelta dell’autore di organizzare i capitoli del libro geograficamente per Paesi e continenti – seppur controintuitiva – ha il merito di offrire una rappresentazione articolata della diaspora anarchica, come una rete in cui i nodi si moltiplicano e si arricchiscono, o al contrario si rarefanno, a seconda del periodo storico e degli avvenimenti. Raccontano la vita e la militanza degli anarchici più noti – da Errico Malatesta a Luigi Galleani a Pietro Gori – e le relazioni che si intrecciano con altri rivoluzionari e figure dell’anarchismo internazionale. Anche le vite di persone meno conosciute sono altrettanto significative per l’impegno continuo nell’organizzazione delle lotte operaie e proletarie ma anche nella pratica quotidiana tesa sempre a realizzare quel mondo di “liberi e uguali” che è il cuore pulsante della diaspora anarchica. Grande importanza è sempre riservata alla pratica libertaria nella vita di tutti i giorni e nel tempo libero con feste, picnic, concerti e anche con tentativi – a volte molto difficili – di fondare delle vere e proprie comuni. Una comunità, quella dei libertari italiani “alla quale partecipano sì gli uomini, ma anche tante donne che nel movimento non sono né nascoste, né invisibili, al contrario di quanto ancora spesso si pensi”. Certamente negli Stati Uniti l’esperienza della migrazione e il lavoro in fabbrica permettono alle lavoratrici italiane di emanciparsi, di ribellarsi alla subordinazione, di valorizzare l’istruzione e conquistare maggiore libertà nelle scelte di vita, dal matrimonio all’indipendenza economica. Tutte cose che saranno rinforzate dal pensiero anarchico tese – come detto sopra – a sperimentare fin da subito pratiche di vita libertarie. A proposito di donne anarchiche è bello ricordare Maria Luisa Berneri morta a soli 31 anni a Londra, e il suo Viaggio attraverso Utopia (edizioni Malamente). Di conseguenza la pedagogia libertaria e la divulgazione del sapere critico e libertario hanno molta rilevanza: si può sostenere che non esista un posto dell’emigrazione in cui non ci fosse anche una stamperia legale o illegale che fosse. Enormi furono poi le campagne contro la repressione in particolare quella internazionale contro la condanna a morte dei due sindacalisti italiani Sacco e Vanzetti.
Non si deve però dimenticare che anche la lotta armata transnazionale di parte anarchica fu una costante già dagli ultimi decenni dell’Ottocento. Con atti dimostrativi – che a volte finiscono in tragedie non volute – e attentati contro rappresentanti del potere fra i quali il più famoso è certamente quello commesso in Francia da Sante Caserio alla fine dell’Ottocento, che portò a una repressione fortissima contro gli anarchici presenti in Francia, a massicce deportazioni e a virulente aggressioni contro tutta la comunità italiana. Come è noto gli anarchici pensarono e cercarono più volte di attentare anche alla vita di Mussolini.
Sempre inseriti nei contesti locali gli anarchici italiani partecipano anche alla rivolta serba contro l’Impero Ottomano nel 1876, alla ribellione egiziana anti-europea del 1882 e alla guerra greco-turca del 1897. Una significativa parte di italiani si aggrega alla rivoluzione messicana del 1910, guidata da Emiliano Zapata, che convinse anarchici come Pëtr Kropotkin della possibilità di sviluppare forme di socialismo anche in società prevalentemente agricole: una visione alternativa rispetto alla tesi secondo cui l’industrializzazione e la produzione di massa sarebbero state condizioni necessarie per una trasformazione socialista. Un’idea simile animò la rivoluzione ucraina guidata da Nestor Machno, che fu sconfitta nel 1921 dai bolscevichi. Proprio lo scultore anarchico italiano Guelfo Guelfi scolpì la tomba di Nestor Machno sepolto al Père Lachaise di Parigi. Sia Zapata che Machno incarnarono forme di rivoluzione contadina autonoma e anti-autoritaria, opponendosi sia ai vecchi padroni che ai nuovi governi centralizzati. Il loro obiettivo era costruire una società basata sulla giustizia agraria, l’autogestione e la libertà popolare. L’autore non nasconde però che dall’esperienza della rivoluzione messicana quella che oggi chiameremmo “la linea del colore” pesò non poco: una parte delle posizioni espresse dagli anarchici, anche italiani, furono francamente “razziste”.
Questa tendenza di internazionalismo armato proseguì nel Novecento, inclusa la seconda metà del secolo con la partecipazione libertaria alle lotte per la decolonizzazione, e si mantenne viva fino al nuovo millennio, come dimostrano i casi contemporanei del Rojava e della stessa Ucraina occupata dai russi. Già da tempo la tradizione comunista ha dovuto fare i conti e riconoscere gli enormi torti nei confronti degli anarchici; non solo con lo stalinismo con cui gli anarchici si scontrano in modo sanguinosissimo durante la guerra civile di Spagna del 1936 dove fra altri 500 combattenti Camillo Berneri e Francesco Barbieri vennero arrestati come “controrivoluzionari” e nella notte tra il 5 e il 6 maggio uccisi, e i loro cadaveri abbandonati in strada. Fin dall’inizio della Rivoluzione Russa gli anarchici furono combattuti e trattati da nemici senza troppe cerimonie. Lo racconta anche la storia, riportata nel libro di Senta, dei tre giovanissimi anarchici italiani Fedeli, Bruzzi e Ghezzi arrivati entusiasti a Mosca determinati a inserirsi nel contesto rivoluzionario ma subito messi di fronte alla dura realtà della repressione bolscevica.