Il testo presentato con il titolo Fascismo e populismo è la revisione di un discorso tenuto agli Rencontres Internationales de Genève dedicato a Ressentiment. Périls et espoirs démocratiques a cui avevano partecipato, oltre ad Antonio Scurati, Ivan Krastev, Anne Nivat e Barbara Stiegler. Tutti gli interventi sono ascoltabili sul canale Youtube.
Il carattere discorsivo che caratterizza questo testo proviene quindi dalla sua origine come conferenza e dal contesto, all’interno di una rassegna e una discussione molto più ampia. Il tema del 2022 era dedicato al “risentimento”, da intendersi come quello sfogo causato dalla frustrazione, dall’inferiorità, da una sotterranea invidia, personale e poi collettiva, che si diffonde fino a diventare un sentire comune che ribolle e si sfoga sia nella politica sia ai margini della politica, attraverso movimenti aggressivi e spesso violenti. Il contributo di Scurati è dedicato al caso italiano e la sua inarrestabile deriva che viviamo attraverso lo scontro tra una destra diffusa e variegata a cui si oppone la visione liberale, quasi tatcheriana, del cosiddetto centro-sinistra italiano, che si colloca come la versione più conservatrice dei liberali d’Europa, nemico del welfare e in prima linea nel saccheggio dei beni comuni da parte dei privati. La visione del ceto politico italiano che è sconfortante, deprimente, schiacciato tra lo spettro delle semplificazioni e della violenza delle molte formazioni di destra e il progetto delle classi dirigenti avido ed elitario. Sullo sfondo una moltitudine di lotte riconducibili alla tradizione del socialismo, della vera democrazia, della solidarietà che hanno difficoltà a unirsi e compattarsi in una visione rivoluzionaria e alternativa.
Molte coraggiose avanguardie lottano quotidianamente contro questa prospettiva bipolare, ma al di fuori del sistema politico istituzionale ed elettorale, nei quartieri, nelle strade, fuori dai molti cancelli, reticolati, muri del capolavoro occidentale. Questo fa dell’Italia un caso particolare, che la interconnette più alle realtà dell’Europa orientale che a quelle occidentali, ma che, a causa del suo tragico passato, assume un inevitabile ruolo di professionista dell’autoritarismo. Il discorso di Scurati si era quindi collocato all’interno di un’esposizione collettiva che dalla prospettiva di un’identità politica globale (Ivan Krastev), ha analizzato una serie di esperienze specifiche delle realtà di guerra come Afghanistan, Cecenia, Ucraina e Iraq (Anne Nivat), fino a un’analisi più intima della dialettica della democrazia occidentale (Barbara Stiegler). È quindi sì una storia tutta italiana ma che, come del resto era accaduto alla fine del primo conflitto mondiale, si innerva in una crisi planetaria, in una lotta per disegnare un nuovo ordine mondiale.
Le diverse componenti del nuovo fascismo italiano (eccezionalmente capaci a compattarsi al momento del voto e della pratica parlamentare) percorrono il sentiero pericoloso di proporre il loro inglorioso passato come chiave privilegiata per leggere il presente, come logica attiva su cui intervenire nei conflitti sociali, nell’illusione che, ignorando ogni analisi economica e aggredendo ogni ipotesi democratica ed egualitaria, si possa isolare una società italiana da quella multietnica e permeabile che proprio la globalizzazione neoliberista ha prodotto. Lo stesso piano di Hitler, se vogliamo, che, a partire dal ribollire tradizionalista della cultura völkisch, aveva chiamato la Germania tedesca a una lotta disperata e violenta contro il meticciato e la contaminazione straniera. Secondo la lettura di Scurati, alla base dei successi del fascismo contemporaneo (quel movimento italiano che, a partire dal 1919, si è modificato più volte, di generazione in generazione, arrivando fino a oggi, con il governo diretto da Giorgia Meloni) c’è anche una crisi del socialismo, ovvero di quel “sentire la propria piccola esistenza individuale come parte di un racconto più vasto”, quella consapevolezza interiore di appartenere a una classe che è un soggetto importante della Storia per avere attivato un aumento progressivo della libertà e della democrazia. Scurati trova una frase molto bella, quasi toccante, per descrivere questa sensazione che è stata individualmente provata da milioni di persone: “il futuro è uno di noi”. Ma ne descrive altrettanto efficacemente la crisi commentando che, da un certo momento in poi, “abbiamo cominciato a misurare ogni esperienza sul metro del presente”, ricadendo nella prospettiva individualista che aveva caratterizzato in molte epoche l’esistenza delle classi subalterne. Scurati forse pensa a una crisi morale che ha inficiato la compattezza delle generazioni che si sono succedute alla Resistenza ma anche, io credo, a un superamento storico di esperienze che sono state fondamentali della storia del socialismo e a un processo di ristrutturazione e aggiornamento del capitalismo mondiale a cui non è seguita una risposta organizzativa democratica e socialista che fosse efficace a livello globale. A ben vedere – ma Scurati non prende in considerazione questa possibilità – quel movimento che attira soprattutto nostalgia avrebbe potuto evolversi nella moltitudine teorizzata da Antonio Negri e Michael Hardt che supererebbe (in senso quasi più hegeliano che marxista) concetti storici fondamentali come le masse, il proletariato e la classe operaia, l’autoritarismo delle forme partito e l’implicita violenza della dittatura proletaria per raccogliere in una rete tutte le singolarità vecchie e nuove in una geometria libertaria. Tuttavia, questa ottimistica prospettiva, soprattutto dopo il fallimento della mobilitazione contro il G8 di Genova del 2001, non incide politicamente su quella che sembra essere una contrapposizione interna alla società capitalistica liberista in cui lo stesso fascismo è alla ricerca di un ruolo attivo. Forse questa è la contraddizione del fascismo di oggi, un movimento degli ossimori, non dimentichiamolo rivoluzionario e conservatore, che da un’identità di meri picchiatori al soldo delle classi dirigenti, si è trasformato prima nei volonterosi torturatori e sadici della Repubblica sociale italiana poi negli stragisti dell’atlantismo, sempre, come oggi, alla ricerca di un ruolo magari diverso ma che consenta loro di esercitare impunitamente la violenza e con questo garantire alle classi dirigenti di mantenere potere e privilegi.
Il discorso di Scurati non intende approfondire le ragioni socioeconomiche che, a distanza di un secolo, hanno consegnato al fascismo italiano il centro del potere nazionale per cercare invece di comprenderne gli aspetti culturali e psicologici che sono alla base di un’impressionante e libera adesione, un consenso che in passato il regime aveva realmente avuto. Si può pensare che il fascino che attualmente esercita il fascismo sia sostanzialmente dovuto dalla delusione generalizzata verso le forme politiche autonome dei lavoratori, da quelle comuniste, per passare a ideologie più vaghe come l’ecologismo, e alla comprensione che il mondo liberale, votato con pervicacia al culto dell’individualità, non intende offrire alcuna risposta a chi non fa parte delle classi dirigenti. È in questo contesto che un populismo, più disperato che ideale, si propone come argine a una realtà che intende dissolvere popoli e nazioni nel tritacarne della globalizzazione e nel progetto delle classi dirigenti di ottenere profitto in ogni luogo del pianeta. Scurati passa in rassegna le caratteristiche di quello che fu il vincente populismo mussoliniano, con il culto della personalità del capo, la violenza come fondamento esistenziale che, a partire da un’origine proletaria, attribuisce il potere agli individui di fondare nuove élite, il conseguente disprezzo verso ogni forma di solidarietà, egualitarismo e democrazia. Scurati definisce questo dei fascisti un comportamento di sola prassi senza alcuna teoria, che poi è il centro del pensiero politico di Julius Evola e della sua idea di costituire un’aristocrazia intellettuale molto ridotta, lasciando alla maggioranza degli stessi fascisti un ruolo quasi primitivo.
Se la maggior parte del testo è raccolta in due capitoli intitolati Fascismo e Populismo, la conclusione è una breve riflessione su un termine che nel Novecento è stato ferito, bistrattato e violentato senza pietà: Democrazia. In realtà sono molti gli spunti che questa digressione suggerisce e con alcuni non mi sento in completo accordo o almeno necessiterebbero di ulteriori approfondimenti. In realtà il lavoro sottile di Scurati è un invito a lavorare sul significato che termini come fascismo, populismo e democrazia hanno oggi, parole che, tuttavia, pur assumendo nuovi significati non mancano di mantenere in sé la loro storia, le contraddizioni e le alterne fortune. L’analisi parte da un ricordo personale dell’autore che riguarda la caduta del Muro di Berlino, quell’Antifaschistischer Schutzwall, traducibile più o meno come Vallo Antifascista, che nell’immaginario mondiale ha rappresentato una delle forme più odiose di oppressione e autoritarismo. L’idea diffusa era che fosse ingiusto che i tedeschi fossero divisi contro la loro volontà e che i tedeschi della DDR dovessero avere la stessa libertà e democrazia che avevano i loro corrispondenti della Repubblica Federale di Germania, ma questa idea comportava attribuire un valore positivo all’idea di popolo e di nazione che proprio la lotta ai fascismi europei e le lunghe resistenze avevano iniziato a criticare.
Oggi, grazie a giovani storici come Eric Gobetti e Carlo Greppi, viene enfatizzato il carattere multinazionale della Resistenza italiana attraverso lo studio e la rivalutazione del contributo dei combattenti non italiani, la Guerra di Spagna viene letta come il primo episodio di una lotta che gli antifascisti italiani e tedeschi portavano al fascismo, combattendolo dove era possibile e in ogni forma si presentasse. Nonostante questa lezione, oggettivamente resa meno chiara dalle necessità della Guerra fredda, ancora oggi non è un patrimonio culturale comune che il rafforzamento di concetti come patria, popolo e nazione hanno un’elevata probabilità di degenerare in nazionalismo, sovranismo e fascismo. Scurati osserva che l’idea di una democrazia eterna, magari progressiva, dove i risultati ottenuti diventavano elementi costitutivi di una società che non sarebbero mai stati messi in discussione, si è rapidamente rivelato come un inganno. Scrive che era idea diffusa che la “democrazia fosse quasi una condizione naturale”, mentre invece si è trattato di un equilibrio instabile frutto di rapporti di forza estremamente complessi. Mi viene in mente il titolo di testa profetico quanto metaforico di un numero di “Potere Operaio” che riportava: “Democrazia è il fucile in spalla agli operai”.
Se Scurati vede, a partire dalla caduta del Muro di Berlino, l’inizio di una profonda crisi della democrazia liberale causata dal manifestarsi di una serie di fattori come il terrorismo islamico, il sempre maggior peso internazionale di nazioni estranee ai sistemi democratici e la guerra attualmente in corso in Europa orientale, credo che questi motivi debbano essere contestualizzati all’interno della guerra neoliberista che, a partire dall’inizio degli anni Ottanta, ha coinvolto ogni angolo del pianeta, e che la progressiva perdita di democrazia sia stato uno degli effetti immediati della vittoria delle nostre classi dirigenti nella guerra di classe globale. Una rivincita, se mi posso permettere, ma coerente al quadro descritto da Marco Revelli nel suo libretto divulgativo La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi. Vero!, pubblicato recentemente da Laterza. La storia delle democrazie liberali, a mio parere, non consente di essere così fiduciosi e il nostro relativo benessere italiano, comunque costellato di lotte spesso sanguinose, di ingiustizie e repressione, è purtroppo figlio della Guerra fredda e di un calcolo economico-militare, e con la fine dei blocchi è iniziato il suo smantellamento.
Mi permetto quindi di osservare che esiste un robusto legame tra democrazie liberali e fascismi, e che lo sviluppo della democrazia richiede un controllo dell’economia (anche per evitare la morte del pianeta), la rimozione delle diseguaglianze e delle loro cause, servizi essenziali garantiti e fuori dalle sfere di speculazione, ampliamento dei servizi pubblici a discapito di quelli privati, sobrietà ed essenzialità contro il consumismo, protezione del lavoro ad ampio spettro, perché poter contare su un sistema di garanzie è la chiave di una dignità individuale che può essere sviluppata solo collettivamente. E per tornare all’inizio del discorso, alle prime pagine di Fascismo e Populismo, è solo il socialismo, con il suo profondo senso del tempo e del lavoro generazionale, che può sottrarre alle classi dirigente quel potere che è alla base delle democrazie liberali come le abbiamo storicamente conosciute.
È tempo di chiudere, però Fascismo e Populismo mi ha portato a rileggere il bel saggio di Christian Raimo Contro l’identità italiana, pubblicato da Einaudi, che legge con attenzione il processo pauroso di costruzione apocrifa di una italianità in un mondo in cui i confini naturali, ampiamente sbaragliati dalle guerre commerciali, sono incessantemente attraversati da uomini e donne che si spostano per sfuggire alle guerre, alle carestie, allo sfruttamento delle aziende multinazionali perno delle democrazie liberali, ai fascismi locali, alle milizie. In un mondo come questo la difesa dell’identità o di una patria suona come un crimine.