Antonio Negri / Due libri a confronto

La filosofia di Negri è sovversiva perché ispirata alle lotte dell’operaio massa prima, dell’operaio sociale e della moltitudine dopo e perché i suoi concetti, nuovi e fecondi, corrispondono a queste esperienze concrete.

Il genio più autentico albergava tra la gente di cui parlavano.
Lì la lotta era più che una parola o un’idea, ma la vita stessa.
J. Robinson (Black Marxism, Ed. Alegre, 2023)

Leggo Dal rifiuto del lavoro alla moltitudine. La filosofia sovversiva di Toni Negri di Roberto Nigro (Derive Approdi, 2024) a ridosso della lettura de L’inchiesta metropolitana (manifestolibri, 2023) che raccoglie gli scritti di sociologia di Negri. Convincente, mi ero detto, da prendere sul serio questo Negri sociologo all’apparenza così lontano dal Negri filosofo. Perché se ne parla poco? Troppo distanti e diversi tra loro il sociologo e il filosofo?

Così, credo, anche per Nigro. Negri è stato e resta filosofo, pare ci dica il suo silenzio in proposito. E qualcuno più curioso potrebbe aggiungere che in fondo per lo stesso Negri fare sociologia è stato solo un lavoro precario per tirare a campare e che lavorare stanca. Confesso che per tutta la lettura del suo saggio su Negri filosofo, il Negri sociologo mi si è ripresentato costantemente come il più classico dei convitati di pietra.

Dunque sovversiva per Nigro è la filosofia di Negri per il suo contribuito a innovare profondamente il marxismo italiano grazie alla scoperta della lotta autonoma della classe operaia nelle grandi fabbriche del nord. Una scoperta, questa, insieme distruttiva del vecchio paradigma storicista e costruttiva del nuovo paradigma operaista col suo inedito apparato concettuale. Un esempio per tutti: il rifiuto del lavoro[1]. Il mito gramsciano dell’operaio che si identifica con la fabbrica e con la produzione, che “non può vivere senza lavorare, e senza lavorare metodicamente e ordinatamente”[2], va a farsi benedire con l’irruzione in fabbrica dell’operaio massa. Il che sarebbe sufficiente a escludere Foucault per comprendere appieno i “processi di assoggettamento e disciplinamento […], il ruolo della coazione al lavoro nella costruzione dei soggetti produttivi e della forza lavoro”[3]. Per dire che la filosofia sovversiva di Negri non nasce dal confronto con i filosofi marxisti italiani sulle colonne di “Rinascita”[4] né dalla frequentazione della filosofia francese dei Merleau-Ponty e dei Kojève. Essa è nata agli inizi degli anni Sessanta dentro la pratica della conricerca, cioè con l’immersione diretta di Negri nel mondo operaio. Punto.

Le conseguenze non furono di poco conto. A farsi benedire andava anche il suo correlato, quella coscienza di classe da sempre croce e delizia del nostro Movimento Operaio. È stata la conricerca a mostrare che per l’operaio massa non di un fatto teorico si trattava ma di un “sapere del lavoro e dello sfruttamento”[5].

La filosofia, si sa, nasce dalla meraviglia[6]. Anche nel caso della filosofia sovversiva di Negri: a luglio ’62, a Torino, gli capita di assistere agli scontri di piazza Statuto[7], a giugno del ’63, a Marghera, alla distruzione dei forni della Vetrocoke. In entrambi i casi la sorpresa, lo stupore. Dice: “mi mancavano i parametri di comprensione dell’evento”[8].

A Nigro sfugge la portata della sociologia nel pensiero e nella pratica operaista, il suo aspetto agonistico. E infatti solo en passant parla di “inchieste operaiste condotte in fabbrica in mezzo agli stessi operai”[9]. Gli sfugge che lo stesso concetto di composizione di classe, tecnica e politica[10], è da lì che discende e che Alquati s’inventa la conricerca non solo per conoscere meglio il sistema di fabbrica ma per meglio combatterlo. Non vede il Negri sociologo senza il quale, crediamo, non c’è il Negri filosofo. Nel suo caso, di Negri intendo, vale il punto di vista del Grande Timoniere: la pratica precede la teoria. Vale per il concetto di lavoro vivo. A Tronti, che ha sempre preferito ai cancelli della fabbrica la sezione ostiense del Partito, il concetto doveva sfuggire. La sua intuizione, pur nel frastuono di quegli anni, non poteva andare oltre la tesi che lo sviluppo capitalistico è subordinato alle lotte operaie, un modo, in verità, per ridefinire il rapporto del suo partito con la nuova classe operaia[11].

Intuito, quello di Negri?[12]. Macché. Lavoro vivo è concetto squisitamente marxiano che signoreggia nel Frammento sulle macchine apparso per la prima volta nel ’64 nei «Quaderni rossi». Scrive Marx: “Nel macchinario il lavoro oggettivato si contrappone al lavoro vivo – nello stesso processo di lavoro – come quel potere che lo domina, che il capitale stesso è – nella sua forma – come appropriazione del lavoro vivo”[13]. Forme di lotta inedite da un anno sono praticate un po’ ovunque nelle grandi fabbriche del nord, in particolare il sabotaggio e lo sciopero a gatto selvaggio. Non nuove – ché il sabotaggio è sempre stato un tentativo di difesa individuale – ma per l’appunto inedite per la loro forma: di essere collettivi e coscienti[14]. Per dire che solo grazie all’inchiesta operaia e la conricerca Negri può scoprire in queste nuove pratiche di lotta la dimensione politica del lavoro vivo e la sua potenza. Che nel vis-a-vis col capitale cambia pelle[15].

Negri seguirà queste mutazioni con una passione e una perseveranza che ricordano l’eroico furore di bruniana memoria[16]. Da vicino in Italia negli anni Sessanta e Settanta, poi in Francia (’83-’97), ancora in Italia (’98-2008), infine, a chiudere il periplo, di nuovo in Francia.

Ovviamente in questo suo viaggio Negri non dimentica di essere un filosofo. E fa bene Nigro a ricordarci i momenti salienti della sua avventura filosofica in compagnia di Marx e dei suoi Grundrisse, di Spinoza e della sua Etica, dei suoi maestri francesi Foucault, Deleuze e Guattari. E fa bene, anche, a sottolineare l’importanza di taluni concetti di questa filosofia, «soggettività» ad esempio e «ontologia»[17], utili per qualificare al meglio l’operaio sociale e la moltitudine, nomi negriani par excellence per dire le trasformazioni della composizione di classe. Solo che il rischio di questa lettura tutta filosofica è di scarnire il lavoro vivo della sua soggettività. Cancelli la materialità delle lotte, de-soggettivi il lavoro vivo. La sociologia dei Quaderni Rossi non a caso ci restituiva la soggettività dell’operaio massa perché era operativa, funzionale alle sue lotte e a questa connessione operaista di conoscenza-ricerca-intervento Negri è rimasto sempre fedele nonostante la consapevolezza che la sociologia da tempo ha smesso di pensarsi come scienza critica.

Gli è che dietro quel lavoro vivo come sovversione, dietro quella sua soggettività come sovversione di cui parla Nigro ci sono le lotte dell’operaio massa prima, dell’operaio sociale e della moltitudine dopo. È al ritmo di queste lotte che è maturata la filosofia di Negri. Ri-legge e chiosa i Grundrisse a conclusione del ciclo dell’operaio massa, ri-legge e chiosa Spinoza negli anni Ottanta con l’emergenza di un nuovo soggetto sociale, intellettuale e insieme proletario[18], scrive Impero, Moltitudine, Comune, Assemblea in sintonia con i movimenti sociali della moltitudine che inaugurano il nuovo secolo.

Sì, sovversiva la filosofia di Negri perché ispirata a queste lotte e perché i suoi concetti, nuovi e fecondi, corrispondono a queste esperienze concrete. Ma di tutto questo non c’è traccia nel saggio di Nigro.

[1] Dal rifiuto del lavoro alla moltitudine, cit., p. 28: “La pratica del rifiuto del lavoro comporta una messa in discussione radicale delle vecchie idee filosofico-antropologiche sul lavoro”.

[2] A. Gramsci, L’operaio di fabbrica in L’ordine nuovo 1919-1920, Einaudi Editore, Torino 1955, p. 325

[3] Dal rifiuto del lavoro alla moltitudine, cit. p. 28

[4] F. Cassano, Marxismo e filosofia in Italia. I dibattiti e le inchieste su “Rinascita” e il “Contemporaneo”, Bari 1973

[5] T. Negri, Storia di un comunista, Ponte alle Grazie, Milano 2015, p. 219

[6] Aristotele, Metafisica, 1,2, 982 b 12-20: “Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia”.

[7] Storia di un comunista, p. 227: “gli operai Fiat all’inizio e poi, sempre di più, il proletariato torinese delle «boite», gli edili ecc., vanno come a un rito di iniziazione”.

[8] Ivi p. 233

[9] Dal rifiuto del lavoro alla moltitudine, cit., pp. 26-27

[10] Ivi p. 38

[11] M. Tronti, Classe e partito in «classe operaia» 10-12, Reprint completo 1964-1967, Machina libri, Milano 1979, p. 3 (151): “La classe operaia possiede una strategia spontanea dei propri movimenti e del suo sviluppo: e il partito non ha che da rilevarla, esprimerla e organizzarla. Ma la stessa classe non possiede a nessun livello, né a quello della spontaneità né a quello dell’organizzazione, il momento vero e proprio della tattica”. E più avanti: “È chiaro che il rapporto politico tra partito e classe deve nascere in fabbrica, e da qui deve partire per investire tutta la società, compreso il suo Stato. E in fabbrica deve tornare, per far camminare sul terreno decisivo il meccanismo politico del processo rivoluzionario”.

[12] Ivi p. 39, nota 54

[13] K. Marx, Frammento sulle macchine in «Quaderni rossi» 4, Sapere Edizioni, Milano 1970, p.290

[14] «gatto selvaggio». Giornale di lotta degli operai della Fiat e della Lancia in Reprint completo 1964-1967, cit. (III-VI)

[15] Non così per Tronti. Così in Operai e capitale, Einaudi editore, Torino 1977, p. 244: “Niente va battuto con più ferocia che l’immagine oggi corrente di una «nuova classe operaia» che continuamente rinasce, rinnovata e sola, dai vari salti tecnologici del capitale, come da un laboratorio scientifico di produzione”.

[16] T. Negri, Galera ed esilio, Ponte alle Grazie, Milano 2017, pp. 306-315; A. Negri, L’inchiesta metropolitana, cit.

[17] Dal rifiuto del lavoro alla moltitudine, cit., pp. 74-77 e pp. 97-102

[18] A. Negri, Fine secolo. Un manifesto per l’operaio sociale, Sugarco Edizioni, Milano 1988