Il portoghese António Lobo Antunes continua a trovare in Italia un pubblico che apprezza la sua narrativa complessa, il suo stile originale e circonvoluto, le sue trame lucide e disperate. Questo Sôbolos rios que vão arriva in Italia dopo undici anni dalla pubblicazione originale (è uscito in Portogallo nel 2010), però arriva; e ci auguriamo che venga ristampato anche nei tascabili, dal momento che di tutti i suoi romanzi apparsi per Feltrinelli (dodici) e Einaudi (negli anni Novanta, cinque titoli, di cui due ripresi da Feltrinelli), solo In culo al mondo (1979) e Spiegazione degli uccelli (1981) sono ripresi nella serie economica.
Al centro di Sopra i fiumi che vanno c’è, come sempre, la memoria; un personaggio (che in questo caso si chiama Antoninho Antunes, come l’autore) in un lasso temporale ridotto, nel presente della narrazione, ricorda un periodo passato della propria vita. Nei primi libri, questa operazione di memoria guardava al periodo coloniale del Portogallo; l’autore infatti conobbe in prima persona la guerra di liberazione dell’Angola, la colonia che ottenne l’indipendenza dopo la Rivoluzione dei garofani, dal momento che tra il 1971 e il 1973 era arruolato come medico militare nell’esercito, nella “sporca guerra” che avrebbe provocato l’insurrezione militare e la fine del fascismo. Nel caso del presente libro, invece, i ricordi rimandano a una generica infanzia in un Portogallo rurale.
Il personaggio Antoninho è ricoverato in un ospedale per i postumi di un’importante operazione chirurgica; la situazione è probabilmente grave fino dalle prime pagine, anche se egli non se ne rende conto. Solo parzialmente cosciente di ciò che accade, a causa dei farmaci e del dolore diffuso, Antoninho torna alla sua infanzia: un fatto che accomuna molti malati terminali, che vivono circondati da persone e eventi del passato, fantasmi della prima parte della vita. Lobo Antunes prende questo tratto di realismo e lo trasforma in una meravigliosa macchina narrativa, inserendola in una periodizzazione di 15 giornate, dal 21 marzo al 4 aprile 2007: giorni di degenza, e anche capitoli del libro. Benché non vi sia azione vera e propria (o perlomeno, occorre “ricostruire” gli eventi collegando insieme ricordi di un capitolo e dell’altro), la situazione progredisce in direzione di un deterioramento, fino all’ultimo, commovente capitolo.
Il lettore viene a sapere ben poco della maturità di Antoninho, tutto ruota intorno alla sua infanzia: il padre e i suoi tradimenti, la famiglia e i parenti, il paesaggio, gli animali, la casa d’infanzia, gli oggetti, la madre, la futura moglie, e una donna straniera, una inglese vista da adolescente di sfuggita in un albergo, e desiderata per tutta la vita come massimo esempio di femminilità – e pure come perno della narrazione, in grado di scatenare girandole di emozioni e ricordi, una persistenza dell’immagine che resiste alla vita e al tempo.
Dello stile di Lobo Antunes abbiamo già scritto su Pulp Libri, nella recensione del precedente Lo splendore del Portogallo; accostamento di immagini, iterazione di eventi, parole che innescano una digressione nel ricordo. La sua scrittura, che ha la forma di un flusso di coscienza, è spezzata dai brevi lampi di discorso diretto: non battute alternate, ma frasi che Antoninho sente mentre è immerso nella sua semicoscienza, mentre galleggia nel limbo del passato – oppure anche parole che tornano alla memoria, una domanda della madre, una risposta del padre – ed ecco che il flusso dei ricordi si sposta, si assesta su un altro binario, in una giustapposizione di immagini che non chiama in causa solo il senso della vista, ma un’esperienza più ampia.
Non c’è tuttavia rimpianto per un’età d’oro, l’infanzia, né rimorso per cose non fatte, per sentimenti inespressi. Il protagonista semplicemente vive, o rivive, un altro tempo, e così lo rende vivo per il lettore, mischiando fatti reali (gli infermieri che si prendono cura di lui nel letto, le voci dei medici) con memorie lontane.
Dal momento che è difficile spiegare a parole l’effetto della scrittura di Lobo Antunes, ecco un esempio tratto da pag. 84:
“— Non lasciatelo alzare dal letto
e come non lasciare che si alzi se stava percorrendo la salita che portava alla casa, contento perché il gatto esisteva di nuovo strusciandoglisi contro i pantaloni, l’altro medico
— Gli è scesa la pressione
e una vecchia a osservarlo con occhietti feroci, la zia, la matrigna, una parente, non aveva mai osato
— Chi è?
Rimaneva immobile sentendo i capelli di Maria Lucinda che avevano vita propria e intorno a loro la macchia dei corvi andare a tornare, non manca nessun volto, ci sono tutti, il signor Vicario, Virgílio, gli zingari con il coltello non in tasca, negli occhi, e lui nella nebbia, senza attaccarsi a nessuno, se avessero voluto acciuffarlo sarebbe sgusciato via, la vecchia zitta perché i contadini abitano il lato muto della terra, , di che materia sono fatti oltre che di arbusti e di wolframio, tutti i volti con lui, tutto pronto, nel menzionare Maria Lucinda la nonna
— La figlia del signor vicario”
Come ho scritto nella precedente recensione, è sorprendente che una nazione delle dimensioni del Portogallo abbia dato alla letteratura contemporanea due scrittori del calibro di José Saramago e António Lobo Antunes.