Si dice che sono tutte belle le mamme del mondo, e quella di Antonio Franchini, sessantaseienne scrittore napoletano, non fa eccezione nonostante, ci confessa nel lapidario incipit, puzzi. Lei è Angela e in questo modo verrà chiamata durante tutta la narrazione, un po’ forse perché così facendo l’autore prende le distanze da chi detesta da sempre, un po’ forse per creare un personaggio, per dare un alone di mito a questa donna che, in coppia con la madre – a sua volta insopportabile e che già conosciamo da un precedente romanzo di Franchini sul giornalista Siani, L’abusivo, con l’esilarante soprannome di Locusto –, viene additata come Erinni che nella mitologia greca è la personificazione femminile della vendetta.
Sappiamo molte cose di Angela: ha bisogno di odiare come di respirare; non ha mai avuto una sola amica perché l’amicizia tra donne, così sostiene, non può esistere come, alla stessa maniera, non esiste quella tra maschi e femmine perché i maschi, dalle femmine, vogliono una cosa sola; deride e insulta chiunque le capiti a tiro; non sa dimostrare l’amore e non sa farsi amare; ritiene che tutte le maestre siano cretine; si consuma in un perenne conflitto con tutti; è profondamente incoerente non perché d’indole volubile, ma per la volontà di porsi sempre in maniera contraria al suo interlocutore; la sua vita ha sempre ruotato attorno al mangiare; è qualunquista, razzista ed egoista; in pratica, una figura simbolo di tutti gli orrori d’Italia, ma anche un personaggio a cui piace il latino, il colore giallo ed è simpatica – agli altri, però, perché lo scrittore avverte: “Mi fa schifo chi mi ha messo al mondo”.
Ci si chiede allora per quale motivo Franchini abbia deciso di scrivere un libro su di lei e, così, durante la lettura, ho formulato alcune ipotesi. Forse ne ha scritto per indagare il mistero di questa donna e del marito che inspiegabilmente la sceglie per condividerne l’esistenza, delle sue malattie che la affliggono senza essere mai identificate da una diagnosi precisa; forse per cercar di scoprire quale voce le urla dentro così forte da essere tacitata gridando a sua volta, vaneggiando e litigando con tutti; forse per capire da dove nasce tutta questa rabbia. Nel raccontare con grande sincerità e dovizia di particolari una donna così difficile, ha voluto dirci che siamo un po’ tutti Angela. Siamo quelli che, per nascondere la nostra ignoranza, insultiamo coloro ai quali non abbiamo saputo ribattere; quelli che nonostante una persona abbia subito un grave lutto o manifesti delle problematiche, la aggrediamo senza pietà se intralcia i nostri interessi; quelli che vivono con diffidenza le persone diverse da noi; quelli che si muovono con la verità in tasca.
Oppure voleva vendicarsi di una madre che nonostante abbia sempre sbagliato tutto, riesce a suscitare in qualche modo una certa devozione, mentre persone decisamente migliori non sono riuscite a evitare il risentimento e l’indifferenza degli altri. Ma alla fine ho scoperto non essere nulla di quanto sopra; dopo averci lasciato macerare nel dubbio, l’autore scioglie le riserve e conclude il romanzo prendendosi la briga d’intervenire, togliendoci dal dubbio su come interpretare tutte queste storie, alcune anche divertenti, condite da un’irresistibile “napoletanità” che non credo potrà lasciare indifferenti i lettori.
“Sarebbe scontato dedurre da quanto ne ho scritto finora che il mio interesse per Angela abbia tutte le caratteristiche della ferita da medicare, e trattandosi di mia madre, sarebbe altrettanto ovvio dedurne implicazioni psicoanalitiche pesanti, ma per poco che sia lecito a un autore intervenire a proposito dell’ermeneutica di se stesso, sarebbe un’interpretazione sbagliate o eccessiva”. Franchini si rende conto che Angela, per tutta la sua vita, ha interpretato una parte in modo da avvicinarsi a quel tipo di persona cui voleva somigliare: una donna anticonformista, diversa e ribelle che ha deciso di creare un rapporto con il figlio come non si è mai visto, lontanissimo dall’edulcorato modello di madre e figlio descritto nelle pubblicità degli anni Sessanta mostrando, così, al suo pubblico, una madre e un figlio che si amano mandandosi tranquillamente affanculo.