Gli otto testi che compongono L’Arte e la morte furono pubblicati nel 1929. Frutto della giovanile adesione al movimento surrealista (1924) e della svolta segnata dalla rottura con quello stesso gruppo (1926), la raccolta proietta Artaud verso un surrealismo puro, di lunga durata, che si radicalizza in una poesia in prosa dalla forte natura visionaria. “Caverne in cui viene a morire il mare”, aperte da un bacio: così, nel delirio per Abelardo ed Eloisa, oggetto di due testi, traspaiono gli amori dell’autore, l’attrice Génica Athanasiou, la scrittrice Anaïs Nin e Janine Kahn, futura moglie di Queneau, alla quale dedica nel 1926 la Lettera alla veggente. L’amore, foneticamente presente nel titolo (Arte e MORte) è il travaglio che lega tutti i racconti, “l’ascesa aspirante dell’angoscia che vi gonfia” e “il fiume che trascina cadaveri di donne”. Oltre che in Abelardo, Artaud si proietta in Paolo Uccello. Come nell’Ombelico dei limbi (1925), il pittore fiorentino dalle fantastiche geometrie diventa un corpo plastico, deformato dalle allucinazioni surrealiste, già annunciate qualche anno prima da Marcel Schwob nelle Vite immaginarie.
L’irresistibile attrazione verso l’arte figurativa, che sfocerà una ventina d’anni più tardi nelle pagine verbo-visive dei quaderni del manicomio, è forse ancora più evidente nell’Incudine delle forze, testo nato dalla frequentazione dell’atelier del pittore parigino André Masson. Qui respira la scrittura di una genesi surrealista, in cui il soffio di Lucrezio si sposa all’ossessione ritmica della prosa; qui la parola cozza sbattuta come risacca del respiro in un’eco primigenia: “Questo flusso, questa nausea, queste strisce, è da questo che comincia il Fuoco. Il fuoco di lingue. Il fuoco intessuto in trecce di lingue, nel luccichio della terra che si apre come un ventre che partorisce, dal grembo di miele e di zucchero”.
Sempre a un pittore, Jean de Bosschère, è dedicato L’Automa personale. Le allucinazioni avanzano in una notte brulicante, ma all’“onnipotenza del sogno” del Manifesto di Breton, Artaud oppone l’impotere del pensiero, un concetto “in bilico fra impotenza e potere”, che diventa strumento di conoscenza: un “occhio intellettuale del delirio”. In anni più tardi, con l’esperienza dell’automatismo alle spalle, Artaud tornerà ad attingere a questo pozzo di immagini nel viaggio Al paese dei Tarahumara.
Nell’ultimo degli otto racconti, Il vetro d’amore, una farandola di scrittori del sogno e dell’apocalisse – Hoffmann, Lewis Carrol, Gérard de Nerval, Achim von Arnim e non solo – avvolge un’impossibile unione carnale tra un ennesimo alter-ego dell’autore, ora studente (e forse alter-ego a sua volta di Eloisa, in un infernale gioco di specchi) e una “serva abietta” che pare uscita da un vaudeville.
L’egregio lavoro di Giorgia Bongiorno e Maia Giacobbe Borelli, curatrici dell’edizione, non si limita ad una splendida e poetica traduzione (si consiglia al lettore di scandire i versi, nascosti nella prosa che li affina), ma brilla anche nelle due premesse: Un’oscura e intraducibile scienza (di Giorgia Bongiorno) e (di Maia Giacobbe Borelli) Artaud, entrare nella realtà attraverso il sogno.