Ci si chiede a cosa pensi un testo, quando lo si rituffa nella notte richiudendo il libro. Perché che il Pesa-nervi di Antonin Artaud sia espressione della vita autonoma del pensiero, è sospetto che si insinua man mano che la lettura procede. Sono pagine informi, scrittura caotica e paradossale e, insieme all’Ombelico dei limbi, frutto perfetto della stagione surrealista. È il racconto di “una lotta tra i pensieri e le pulsioni, una sfida tra chi ha maggior peso”, come avverte Carmelo Claudio Pistillo nella sua introduzione, indispensabile strumento per inquadrare non solo i testi qui presentati ma più largamente per tracciare una biografia intellettuale dell’autore attraverso le opere.
L’impotere (impouvoir, concetto oscillante tra impotenza e potere, oggetto di una lettera del 1924 a Jacques Rivière) è la forza creatrice di vuoto, con cui si apre il Pesa-nervi: “Ho sentito davvero – scrive Artaud – che spezzavi l’atmosfera che mi circondava, che inventavi un vuoto per aiutarmi ad andare avanti […] spesso mi sono ritrovato in questa condizione di assurdo impossibile, per cercare di dar vita al pensiero”. Ma è proprio questo “dar vita al pensiero” che si rivela impresa vana, paradossale, contraddittoria in sé. Come, infatti, razionalizzare l’informe? Come comprendere una geometria senza spazi? Programmaticamente, dunque, la letteratura, tutta la letteratura “è uno schifo. Tutte le persone che fuggono dal vago per definire quel che accade nel loro pensiero, sono schifose”.
Non si tratta soltanto di quella disarmonia metafisica che innerva la filosofia di Bergson, o le pagine della Giovane Parca di Valéry o i primi e più celebri Ossi di Montale; nel caso di Artaud, addirittura, la dicotomia si fa tortura fisica, “il rapimento di un dolore, e la poesia è questo perpetuo dolore”. Sentire questo è scoprire “una verità che cambia continuamente strada e costringe il pensiero a sperimentarla al di sotto del punto in cui la sperimenterebbe davvero”. Sentire questo è cadere, sprofondare (l’effondrement), come cade il peso della Persuasione di Michelstaedter che “per pender soffre che non può scendere”. Per limitare e sopprimere i dolori, Artaud abusa dell’oppio e del laudano. Sarà proprio la droga a far naufragare il rapporto con l’attrice rumena Génica Athanasiou. Della complessità della loro relazione testimoniano le tre Lettere di ménage, comprese nel Pesa-Nervi. L’ultima di esse si chiude con un grido lanciato oltre la “Grata” (la Grille), la spaccatura tra materia e mente che dilania il poeta.
Se l’inferno è certo, i Frammenti che ne scaturiscono sono nondimeno il rifiuto dell’abbandono all’indistinto. L’immagine diviene allora il mezzo per fissare e conoscere il delirio: “immagini larvali spinte come avviene con un dito e prive di qualsiasi vincolo con la materia”. Non va dimenticato, infatti, che già all’altezza del Pesa-nervi e dei Frammenti di un diario infernale (entrambi del 1925), Artaud scriveva certo “da poeta” – come ricorda Pistillo – ma un poeta immerso nel teatro. Ha già lavorato per il Teatro dell’Atelier di Charles Dullin e all’ottobre del 1923 risale il suo primo testo teorico sul teatro, L’évolution du décor, in cui emerge quella particolare concezione della scenografia che sarà la cifra del suo stile drammaturgico: la scrittura procede per folgorazioni poetiche, il corpo stesso è teatro, la parola è suono, onomatopea del gesto.
Per tradurre un poeta, oltretutto tacciato di “intraducibilità”, ci voleva un poeta: il lavoro di Carmelo Claudio Pistillo, anche in questo, è degno d’ammirazione, consapevolmente coraggioso nelle scelte, testo francese a fronte. La sua Lettera ad Artaud, che chiude il saggio introduttivo, è omaggio e testimonianza di cosa significhi essere attraversati dal Folle di Marsiglia.