L’arrivo sul mercato italiano di un nuovo titolo di Antoine Volodine è sempre da salutare con gioia, soprattutto se la traduttrice è Anna D’Elia. Da quando è uscito, sempre per i tipi di 66thand2nd, Terminus Radioso (stessa traduttrice) anche in Italia si è sviluppato un piccolo culto sotterraneo per l’autore francese di origini russe. Era il 2016 e i lettori erano pronti per essere iniziati alla corrente letteraria del post-esotismo: il “genere” creato da Volodine (al secolo Jean Desvignes) stesso tramite una manciata di eteronimi, o meglio una costruzione letteraria a più voci caratterizzata da tematiche che si collocano all’incrocio tra il mondo onirico e la politica (engagé).
Questo contenitore, che ha permesso all’autore di raccogliere la propria prolifica opera sotto un’etichetta scelta appositamente, inibisce dal chiamare in altro modo i suoi lavori e tuttavia questo Rituel du mépris, (in italiano appunto Liturgia del disprezzo) ha vinto nel 1987 il Grand Prix de la science-fiction française. Va detto che il libro pre-esiste cronologicamente, anche se di poco, alla produzione post-esotica. È un libro chiaramente di fantascienza? Sì e no, è più che altro un libro di Volodine e cioè nulla di simile a quello che avete letto in precedenza.
Oltre a percepire la sua penna inconfondibile, risulta immediatamente chiaro perché in un’epoca di guerra ormai permanente la casa editrice abbia scelto questo libro per la pubblicazione. La storia si dipana a partire da un violento interrogatorio durante il quale la vittima sovrappone ricordi e ricordi di sogni nella sua confessione. Scopriamo poi che l’interesse dei carnefici (il generale Otchaptenko in primis) è rivolto alla specifica etnia della vittima: quali sono i poteri del suo peculiare di incrocio di razze aliene?
Cosa possono fare i Feuhl (come lo Zio Pobosch) o i Wolguelam (come lo zio Volp) e lo zio Golshem comunica davvero telepaticamente con i propri figli ciechi? Questi “mondi paralleli” seppure diversissimi ricostruiscono l’identità del protagonista e in questa ricerca compaiono non solo le tematiche del rapporto con il diverso e delle mutazioni, cari a Volodine, ma anche un altro tema ricorrente, quello della morte. Se Terminus Radioso si svolge nel Bardo e anche Le ragazze Monroe (2023) si muovono nell’afterlife come personaggi di un videogioco ctonio, qui la sequela degli zii si distingue per il rapporto con la nera signora con la falce. La confessione del prigioniero ricostruisce pertanto un contesto più che una trama vera e propria, a partire dai frammenti di ricordi che riguardano la sua infanzia evidenziando che la tortura dei prigionieri è sempre psicologica oltre che fisica (e di botte, il nostro, se ne prende parecchie). Il problema è appunto di identità: se non sappiamo in fondo chi siamo noi come capire da che parte stare in una guerra? Ci troviamo così in piccole comunità in cui lo stigma del diverso è quotidiano e una sequela di Zii impersonano le varie anime del nostro alieno inquisito.
Lo sfondo è desolante: tutti vivono in rovine di città costruite con i rifiuti. Le ambientazioni urbane sono decadenti, caotiche, grigie, rispecchiano un’umanità abbruttita in cui i bambini imparano per forza cantilene razziste. L’unica certezza è la fabbrica, ineluttabile causa di ulteriore annichilimento. Come fosse un quadro di Jakub Różalski, ma senza le cose belle come gli animali, i mecha e le contadine colorate. In fondo non c’è differenza tra le fazioni in lotta, perché il mélange tra gli uni e gli altri è così totale da rendere inane la comprensione di ogni tipo di barricata. L’umanità è distrutta dal proprio stesso fraintendersi (e fraintendere il diverso, i coloni, gli alieni chiunque essi siano). Per quel che riguarda la parte dei generali le cose non vanno tanto meglio e l’inutilità della guerra prende le forme che gli sono proprie: la fucilazione di un giornalista probabilmente evitabile, attacchi e contrattacchi che generano caos, morti e inquinamento invece che vittorie sono all’ordine del giorno.
Importante segnalare che Volodine è stato invitato dalla casa editrice per un breve tour promozionale. In occasione dell’incontro all’Alliance Française di Bologna, con la traduttrice Anna D’Elia e l’ottimo “anfitrione” Jessy Simonini (più libreria Modo Infoshop), ha specificato alcuni aspetti. Perché se la Liturgia è apparsa nel 1986 quando totalitarismo e nazismo erano legati inscindibilmente nell’immaginario, l’autore oggi ci mette in guardia: già allora descriveva sub specie eternitatis le dinamiche totalitaristiche (il disprezzo rituale del titolo) come a dire che le cose, mutatis mutandis, non sono cambiate e chi ha orecchie per intendere, intenda.
Più che il senso, all’interno della giostra terribile e meravigliosa che rappresenta questo nuovo tassello dell’opera volodiniana, va ricercato il suono, la penetrazione profonda che le atmosfere di questo autore sono in grado sempre di lasciare. Alla fine della lettura siamo concettualmente arrivati da qualche altra parte rispetto al punto di partenza, eppure l’abbiamo fatto più con una sensazione epidermica che con la consequenzialità di cause e effetti. Un libro dal quale si emerge con la nausea per la guerra e per tutte le appartenenze nette, anche la propria.