Oggi parliamo del libro Senza Tregua. La guerra dei GAP di Giovanni Pesce (1918-2007), che fu pubblicato da Feltrinelli nel 1967. Giovanni Pesce – nome di battaglia “Visone” – è stato un partigiano e un politico italiano, un militante comunista che partecipò alla Guerra Civile Spagnola, combattendo nelle Brigate Internazionali, in particolare nella Brigata Garibaldi. Al suo ritorno in Italia, dopo la detenzione nei campi profughi in Francia, venne arrestato dalla Polizia Fascista e mandato al confino a Ventotene, dove entrò in contatto con alcuni dei più importanti antifascisti dell’epoca. Liberato dopo il 25 Luglio 1943, entrò a far parte dei GAP (Gruppi di Azione Patriottica). I GAP erano una formazione partigiana che, a differenza delle formazioni che combattevano sulle montagne, si era specializzata nella cosiddetta “guerriglia urbana”, cioè nelle azioni di sabotaggio dirette contro i nazifascisti, contro la Wehrmacht, contro le Brigate Nere, proprio nei luoghi dove il nemico era più forte, cioè nelle città. I GAP erano gruppi partigiani composti da pochissime persone, che vivevano in clandestinità nelle città, protetti dalla maggioranza della popolazione che, dopo il 25 Luglio, aveva ormai capito che il Regime Fascista era destinato a capitolare di lì a pochi mesi.
In questo libro straordinario si coglie anzitutto l’enorme coraggio di questi partigiani, che rischiavano di essere arrestati in qualunque momento, ma anche l’enorme disparità delle forze in campo. A un certo punto Pesce scrive: “Combattiamo la Wehrmacht coi ragazzini; attacchiamo le SS con gli alunni delle medie! ‘Hai paura?’ chiedo a uno. ‘Macché paura. Non vedo l’ora di cominciare’ ” (p. 271). In questa frase si coglie tutta la determinazione di questo gruppo di partigiani giovanissimi, così giovani da doversi inventare delle scuse con i genitori per poter partecipare alle azioni di guerriglia e che invece di scappare di casa per incontrarsi con la ragazza, andavano a combattere contro la Wehrmacht, l’esercito più forte e addestrato del mondo.
In questo testo si racconta la prodigiosa storia della morte del partigiano Dante Di Nanni, morto a soli 20 anni, che per diverse ore resistette da solo all’assedio di decine e decine di fascisti e soldati tedeschi il 18 Maggio 1944, in un appartamento di Via San Bernardino a Torino.
Un altro passo mirabile riguarda la descrizione della differenza quasi antropologica che c’era tra i gappisti e i nazifascisti. A un certo punto Pesce descrive il famigerato eccidio di 15 partigiani a Piazzale Loreto a Milano a opera dei fascisti, ed ecco come descrive i Repubblichini:
“Da Viale Romagna si raggiunge Piazzale Loreto lungo un rettilineo fino in Via Porpora e si svolta a sinistra. Dappertutto cordoni di Repubblichini: militi dietro militi, sempre più fitti, sempre più lugubri. In Piazzale Loreto una folla sconvolta e sbigottita. Si respira l’odore della polvere da sparo. I corpi massacrati sono quasi irriconoscibili. I briganti neri, pallidi, nervosi, torturano il fucile mitragliatore ancora caldo, parlano ad alta voce, eccitatissimi per aver sparato l’intero caricatore.
Sbarbatelli feroci, vicino a delinquenti della vecchia guardia avvezzi al sangue ed ai massacri, ostentano un atteggiamento di sfida, volgendo le spalle alle vittime, il ceffo alla folla. Ad un tratto irrompe un plotone di Repubblichini, facendosi largo a spinte, a colpi di calcio di fucile e andando a schierarsi vicino ai caduti. [….]
L’ultimo volto che vedo, abbandonando la piazza, è quello di un repubblichino, che ride istericamente. Quel riso indica l’infinita distanza che ci separa. Siamo gente di un pianeta diverso. Anche noi combattiamo una dura lotta, in cui si dà e si riceve la morte. Ma ne sentiamo tutto l’umano dolore, l’angosciosa necessità. In noi non è, non ci può essere nulla di simile a quello sguardo, a quella irrisione di fronte alla morte.
Loro ridono. Hanno appena ucciso 15 uomini e si sentono allegri. Contro quel riso osceno noi combattiamo. Esso taglia nettamente il mondo: da un lato la barbarie, dall’altro la civiltà. Ad ogni passaggio, ad ogni posto di blocco, mi imbatto nella loro insolenza, nella loro spavalda vigliaccheria: mitra ostentati, bombe a mano al cinturone, facce feroci, lugubri camicie nere.
Ancora una volta, come in Spagna di fronte alla spietata ferocia degli ufficialetti nazisti, si rivelano i due mondi in antitesi, i due modi opposti di concepire la vita.
Noi abbiamo scelto di vivere liberi, gli altri di uccidere, di opprimere, costringendoci a nostra volta ad accettare la guerra, a sparare e ad uccidere. Siamo costretti a combattere senza uniforme, a nasconderci, a colpire di sorpresa. Preferiremmo combattere con le nostre bandiere spiegate, felici di conoscere il vero nome del compagno che sta al nostro fianco. La scelta non dipende da noi, ma dal nemico che espone i corpi degli uccisi e definisce l’assassinio “un esempio.”
La belva ormai incalzata da ogni parte, si difende col terrore.” (pp. 203-205)
Dopo la Liberazione, Giovanni Pesce fu capo scorta di Palmiro Togliatti, che Pesce conosceva fin dall’epoca della Guerra Civile Spagnola. Nel 1947, Alcide de Gasperi gli conferì la Medaglia d’Oro al Valor Militare.
Si può facilmente immaginare come questo straordinario resoconto di Pesce delle sue azioni di guerriglia urbana abbia infiammato gli animi di una intera generazione che, alla fine degli anni Sessanta, sognava di “fare la Rivoluzione.”