Anni Quaranta: nella bottega colorata di un piccolo villaggio di provincia una ragazza brucia di desideri, curiosità, speranze. Anni Settanta: nell’appartamento ben ammobiliato di una grande città, una donna gela di rimpianti, solitudini, sensi di colpa. Chi è quella ragazza? È Annie Ernaux, l’autrice di questo romanzo tradotto con sorprendente sensibilità e garbo, da un uomo: Lorenzo Flabbi. Cosa ha trasformato quel calore in gelo? Una calamita, che richiama ogni donna dall’adolescenza: il matrimonio. Polo di ruoli (squilibrati), mansioni (precise), aspettative (infrante), sensi di colpa (inculcati). Che conduce ogni donna alla glaciazione dell’io, con tutti i suoi desideri, curiosità, speranze.
La donna gelata è un’autobiografia del 1981, ma risulta universale oggi. Perché l’autrice ha fatto a pezzetti la sua vita, li ha mescolati, rincollati, dando vita a pagine senza dialoghi, scarne di descrizioni, disordinate nello spazio e nel tempo, che entrano così a fondo nel suo vissuto personale da renderlo condivisibile da ogni donna. La sua vita non è più la narrazione di una storia, ma l’analisi di un sentimento, di uno stato d’animo, di un modo di essere. Di essere donne: ragazze infuocate prima, donne gelate poi.
In quei pezzetti ci sono tutte le ragazze, appassionate, ambiziose, sognanti, innamorate e poi deluse, di nuovo innamorate, già ancelle dei silenzi di un letto da universitarie troppo corto e già stretto. Che riversano nell’amore grandi aspettative, ogni felicità, tutto il senso, sempre troppo impegno. Convinte, come Annie un tempo, che con “un uomo al fianco tutte le azioni, anche le più insignificanti, possano acquisire sostanza e sapore”. Ci sono tutte le madri, che sono “la forza e la tempesta, la bellezza e la curiosità delle cose, guida che apre l’avvenire”. Con il loro coraggio, l’energia, la cellulite, la solitudine della maternità. Però pure affaccendate e nevrotiche, dal conformismo del ruolo femminile. “La mia mamma fa le pulizie con cura e attenzione, complemento di modo, spolvera i mobili con cura e attenzione, complemento di mezzo o strumento”, si scrive ancora nei quaderni mentre una madre si affanna in cucina. Ci sono tutte le figlie alla ricerca di una identità, che sentono di essere nate per fare qualcosa, vogliono riscattarsi, riscattarle. Ci sono tutte le figlie, tutte le madri, e il conflitto che sempre e da sempre le lega: la ribellione della figlia verso la madre che non vuole diventare, il livore della madre per la figlia che non ha saputo preservare. C’è la pace, quando si riconoscono al di là dei ruoli, quando si scoprono semplicemente: donne. Ci sono i sederi, scolpiti dagli squat in una palestra di specchi e parquet. E “quelle calze, quella gonna a tubino, quelle scarpe col tacco” non per l’intenzione di “trasformarci in un oggetto sessuale, bensì per renderci felici, di quella felicità che viene dall’essere scelte”. Ci sono le sorelle, le coinquiline, le amiche in viaggio. “Prima dei pannolini, del secchiello e della paletta in spiaggia, degli uomini che non vedo più, del suo piatto preferito, il cosciotto di agnello, del reciproco calcolo delle libertà perdute. Un periodo in cui si piò cenare con uno yogurt, preparare la valigia in mezz’ora per un fine settimana improvvisato, passare una notte intera a parlare. […]. Tutte le ragazze l’hanno vissuto quel periodo lì, più o meno lungo, più o meno intenso, ma guai a ripensarci con nostalgia”. Ci sono le mogli, intrappolate nella tela distopica del matrimonio, dove regna l’abitudine e la differenza dei sessi si esprime in tutta la sua dissonante realtà: “dieci anni dopo, mi aggirerò in cucina, indaffarata e silenziosa, con le fragole e la farina: sono entrata dentro il quadro, e mi sento morire”. Donne che hanno rinunciato alle aspirazioni, ai desideri, a ogni libertà e sopravvivono grazie al “bilancio delle compensazioni […], se io gli preparo il pranzo e gli spazzolo il vestito, lui deve sturare il lavandino e portare fuori la spazzatura. Ti compri un disco?, allora a me spetta un libro. Mi dici e che cazzo, benissimo, io dico stronzo. Incapaci di cambiare qualcosa, anche solo una virgola, se non avendo un altro figlio”, se non comprando una cucina, il divano. Ci sono tutte le “donne fragile e vaporose, fate dalle mani dolci, aliti leggiadri della casa che in silenzio fanno nascere l’ordine e la bellezza, donne senza voce, sottomesse. Quei volti segnati, […] dal parrucchiere, quando giacciono riversi, gli occhi chiusi, durante lo shampoo”. Ci sono tutte le donne gelate.
Uno strano odore trasuda da questo romanzo: è Chanel e olio di mandorla, candele profumate e lattice, fritto e ciambella, ammorbidente e candeggina, pannolini sporchi e talco. È l’odore che circonda ogni donna. Non arriva con le mestruazioni, la prima volta, il vestito bianco, il parto, le lavatrici. Ogni donna se lo porta dietro dalla nascita, come una profezia. Forse il gelo se la porta via.