Green is the new black. L’uniformità monocromatica e ideologica – verde è bello, buono, giusto – sembra la cifra delle smart city contemporanee che in questi anni si contendono il primato della più green in una gara all’ultimo treescraper. Ma il “verde” è oggi anche il colore banalizzante della natura patrimoniale, dello stock urbanistico, delle aree a destinazione ricreativa messe a valore in automatico da qualsiasi speculazione immobiliare della metropoli. Un verde da esibire e da tenere in manutenzione
Per Annalisa Metta, accademica e teorica della progettazione paesaggistica, la sfida dell’architettura del paesaggio comincia invece con il riconoscimento dell’agency non umana e delle forme di autorganizzazione del territorio che si offrono al progettista. Rinunciando a una progettualità “forte” – moderna, autoriale, persistente – significa rinunciare a tempi certi, a risultati determinati e programmati per fase. D’altro canto, optando per la parziale indeterminatezza, si impara a negoziare con i tempi e le modalità delle altre specie, con la composizione dello humus, la direzione del vento o la diversa varietà delle sementi che emergono dalla grande lotteria del vivente. La “natura” – in questa prospettiva – risulta sempre processo e creazione collaborativa, non essenza. La progettazione del paesaggio non ha del resto per obiettivo la conservazione ambientalista e, tantomeno, la venerazione del “verde” urbano (il marrone meno appetito della terra, chiarirebbe forse meglio, anche cromaticamente, il suo segno estetico e politico). Il paesaggio è “selvatico” quando si dà alla macchia, quando introduce, in parte anche fisicamente, il rischio (la responsabilità) e la sorpresa del vivere nella banalità opprimente dell’abitare metropolitano. Senza offrire troppe istruzioni per l’uso, il paesaggio diventa una eterotopia, e rinuncia anche a ripristinare le vecchie gerarchie vegetali tra specie autoctone ed esotiche. Dal punto di vista del progettista i parchi cittadini non sono “verde” volumetrico né, all’opposto, cattedrali o isole incontaminate e necessariamente sottratte all’attraversamento umano. Il paesaggio è “un mostro”, come suggerisce il titolo, perché niente oggi – dal corso dei fiumi alla conformazione delle foreste – può definirsi “incontaminato”, o esente dalla mescolanza e dall’influenza umana, tanto meno nel Vecchio Continente. Un equivoco nato dalla nostra storia recente: la natura del Nuovo Mondo appariva “incontaminata”, cioè esotica e non familiare, al colonizzatore europeo inconsapevole del lavoro svolto in milioni di anni dalla geologia e da migliaia di specie vegetali e biologiche, compresa la sua.
L’autrice ripercorre le tappe delle “quattro nature”, storicamente date in rapporto all’evoluzione della cultura urbana in Occidente: la selva ostile che assedia dall’esterno la città e le sue mura; le colture, inglobate e addomesticate dalla pratica agricola, indispensabili alla sopravvivenza della città; la “natura” dei giardini e del leisure che si afferma a partire dal XVI e XVII secolo. Metta osserva come il dibattito ottocentesco sulla natura – “civilizzata” o “selvaggia” – dei giardini inglesi e parigini, possa ricordare nelle sue prese di posizione, quello che emerge in parte anche nella transizione post-ecologica attuale. Infine la “quarta natura”, quella che lentamente riprende possesso delle aree dismesse e post industriali e che negli ultimi tre decenni ha assegnato priorità urbanistica all’architettura del paesaggio.
Numerosi gli esempi analizzati nel saggio, tra questi la conversione dell’ex-aeroporto di Bonames a Francoforte (2004), dove la vegetazione spontanea è stata in parte lasciata crescere tra le lastre di asfalto, semplicemente spaccate e abbandonate alla cura degli elementi, e la ri-naturazione del fiume Aire a Ginevra, dove un nuovo corso d’acqua, derivato dalla conformazione del terreno, è stato affiancato al canale esistente. Su tutti Il Giardino in movimento (ex Citroën) a Parigi, ideato da Gilles Clément e per vari aspetti individuato come antesignano assoluto. In conclusione un libro che offre memorabili suggestioni, intrecciando le problematiche della progettazione del paesaggio ad approdi filosofici e antropologici contemporanei (Coccia, Descola, Meschieri). E che nei suoi riverberi più selvatici può contribuire a cambiare anche il modo in cui passeggiare (o correre nudi) in un parco.