Nel corso del Novecento le donne possedevano, utilizzavano, studiavano un pensiero radicale senza pari, in modi tali che la mente stava ben piantata nel mondo reale, talvolta opponendosi con tutta la fragilità e la potenza di anime e corpi sempre in prima linea. Emily Dickinson, Simone Weil, Hetty Illesum, Clarice Lispector, Virginia Woolf, Annalena Tonelli, affondavano le mani nelle macerie e nel fango delle diverse epoche, fra guerre e stermini di massa in Europa e popoli in punto di morte in Africa. E nell’intero mondo. Esistenze in contrasto, pensieri contrastanti l’attualità, pensieri discordi su quanto il secolo scorso produceva dentro cervelli folli e economie belliche verso cui scelte (femminili) estreme si opponevano: camminando, viaggiando, scrivendo, immolando la propria esistenza ma non prima di essersi immerse nella matassa buia di un mondo privo d’amore, respingente.
Annalena: nome bellissimo di due cugine di terzo grado. La scrittrice Benini (dirige la bella rivista letteraria “Review”, e prossima presidente del Salone del libro di Torino) e la missionaria Tonelli, uccisa in Somalia nel 2003 con un colpo di fucile: ammazzata perché non sopportata in regioni dove una donna sola, bianca, proprio non deve esistere. E fa paura. Annalena Tonelli non catechizzava ma dava alla luce l’amore per le singole persone, a una a una. Caffè e tè per cibo, poco sonno, vestita del minimo, anni passati a costruire scuole, ospedali, a curare e seppellire bambini, a combattere l’infibulazione. A noi, che non troviamo soluzioni alla sofferenza, questa donna nata a Forlì nel 1943, la più intelligente e bella, ha insegnato che solo dando voce e spazio a una “scossa” adolescenziale si rendono possibili imprese vitali verso i dimenticati e coloro che aspettano solo di morire senza alcuna altra possibilità. Annalena, dopo la laurea conseguita per una specie di dovere verso la famiglia, parte per l’Africa e fa grandi cose. Radicale perché non voleva etichette, rifiutava di parlare a chi aveva lasciato in Occidente, sbuffava, e non poteva trattenersi. È il 1969 l’anno in cui s’immerge nel continente africano per la prima volta.
Annalena Benini, lontana cugina, decide di scrivere di Annalena quando si ritrova alle prese con una polmonite micidiale, con “la febbre a quarantuno” in un letto d’ospedale dove l’avvicinano medici che lei non comprende e un padre che non s’allontana mai. Pensieri e energie vanno e vengono, così come le nonne che le parlano come fantasmi da un al di là non distinto dall’al di qua. Una vita che improvvisamente si avvicina – fra ricordi romani e immagini filmiche di eventi e ricordi – a qualcosa di reale e preciso: le lettere di Annalena Tonelli. Una unione facilitata dall’infermiera bionda che in ospedale le dice che lei si chiama proprio come la missionaria conosciuta da tutti a Forlì: una “carezza” inaspettata libera nella testa della scrittrice ammalata il desiderio di ritrovare le lettere, moltissime e lunghissime, inviate da Annalena alla famiglia dal Kenya, dalla Somalia, dall’America. Ecco una connessione cresciuta miracolosamente nell’atto faticoso del respiro, e poi nella sempre più lucida e interrogante convalescenza: in piena vita e “tornata dal nulla”.
Questo libro contiene molte pagine in cui la grazia della scrittura di Benini si accosta naturalmente, e per vie incrociantesi, al viaggio estremo compiuto da Annalena fino al bordo di un universo fondato sul dolore altrui, tenendosi stretto il “realismo” dell’amare che è ben lontano dall’astrattezza dell’amore. Simile al realismo dello scrivere, che ha tenuto in vita fin che ha potuto le scrittrici che compaiono in Annalena: donne contrastanti, la cui lingua (la parola) è di certo presente nel sangue di Benini – con molte rimostranze nella quotidianità – e che in qualche modo fa il paio col corpo di Annalena Tonelli alle prese con serpenti e scorpioni del deserto, incurante poiché niente poteva essere più serio del reperire antibiotici o seguire la propria visione della realtà nella realtà. Così come Hillesum e Weil, “pazze” di realtà. In questo libro leggiamo di due donne che non si sono mai incontrate ma che si tengono in braccio quasi come mamma e figlia, senza essere mamma e figlia ma in piena disposizione nel voler distruggere le frontiere fisiche e le frontiere del pensiero. Distruggere le categorie. Avendo sottobraccio l’enorme Diario di Etty Hillesum, sottolineato e pieno di orecchie, fatto interamente proprio.
Non si può non amare Benini quando accosta la lontana cugina nei sentieri della sua ricerca, senza mai spingerla poiché è impossibile “spingere ancora in avanti chi sta già così avanti, così lontana”. Anche se Annalena Tonelli pretendeva d’essere incoraggiata, e di avere dagli altri una fonte non metaforica ma reale. C’è bisogno di potenza dall’amicizia, perciò intransigenza e severità non sono mai diluite nell’anima di queste donne, veloci di pensiero e d’azione. Dall’inizio alla fine, nonostante le pietre tirate addosso dagli ottusi e dai macellai fondamentalisti e nazisti. Nelle nostre gabbie abbiamo centinaia di lettere su cui saggiare le deboli verità che ci portiamo dietro. Benini ci dice che nel terribile anno 1943, quando morivano Weil e Hillesum, Annalena Tonelli nasceva. Semi verso un seme. Semi che ora s’espandono nel fertile terreno di questo libro carico di memoria, narrazione, verità: nato da una febbre polmonare, proseguito sul terreno fuori dalle “misure umane” e portato a compimento proprio dove la salute vince.