Anna Seghers / Le metamorfosi del narrare

Anna Seghers, I morti dell’isola di Djal e altre leggende, tr. Daria Bigi, L’Orma Editore, pp. 224, euro 20,00 stampa

Scrittrice sfuggente Anna Seghers, costantemente divisa fra le esigenze del realismo e un’aura leggendaria della quale ama intessere le sue opere. I morti dell’isola di Djal e altre leggende, raccolta di eterogenei racconti inediti in Italia, conferma la natura eclettica della sua vena narrativa. L’incipit che dà il titolo al volume, a lungo caduto nell’oblio per riemergere molti anni dopo, apparve firmato sotto pseudonimo nel 1924 sul supplemento del Frankfurter Zeitung und Handelsblatt. Un indizio della poetica della Seghers, pronta a celare la propria individualità, a farsi narratrice di storie in senso omerico, veicolo di una tradizione che rifiuta il concetto autoriale dell’opera d’arte. Da qui la qualità trasparente della sua scrittura, sottolineata con acume da Christa Wolf, quella trama concreta e astratta al tempo stesso che ha il sapore delle cose trasmesse dalla tradizione orale in molteplici variazioni che ne alterano di volta in volta la sostanza. Un complicato gioco narrativo che, lungi dal risultare passatista, accoglie invece le istanze della modernità.

L’apertura del libro ci porta direttamente nel regno dei morti. Il capitano Morten Sise, emerso caparbiamente dalla tomba, si incontra con il parroco Jan Seghers, che si occupa di dare degna sepoltura ai marinai naufragati sull’isola, salvo scoprire che anche questi è un morto, resuscitato dall’Eterno in persona per portare avanti il proprio macabro compito. Singolare vicenda che narra di spettri del tempo trascorso, aprendo il sipario su un mondo in bilico fra l’essere e il non essere.

L’isola, come nella shakespeariana Tempesta, è un microcosmo dalle valenze allegoriche. La leggenda si perpetua nell’opera della scrittrice, che non a caso condivide il proprio pseudonimo (sembra derivato da un misconosciuto pittore olandese coevo di Rembrandt) con lo spettro. L’autrice nasce per così dire da una materia fantasmatica, occultando ludicamente le proprie origini. La sua opera è costellata dal ritorno degli estinti. Si pensi a Incontro a Praga, dove riporta in vita nientemeno che Gogol’, Kafka e Hoffmann. Tornando al presente volume il bandito Woynok, leggendaria figura di infido brigante, percorre solitario paesaggi impervi spinto da un’ansia irrefrenabile. Dopo la sua morte apparirà in guisa di spettro. La sua fama seguiterà ad aggirarsi per lande remote, evocata di fronte a fuochi accesi da anonime figure. Grovigli metamorfici avvolgono il lettore.

Riscritture del mito, Leggende di Artemide del 1938 e La nave degli argonauti del 1953, chiudono la prima parte del volume. Giasone racconta cose straordinarie e altre normalissime; tutto è già successo e succederà ancora, in un eterno ripetersi. Viene in mente il mondo di Savinio, anch’egli consegnato al gioco elusivo dello pseudonimo, nutrito di cultura classica e in grado di impiegare tale bagaglio piegandolo ai propri scopi. L’io narrante si scompone in innumerevoli rivoli, mentre la scrittura diviene labirintica e spiazzante. Ma torniamo alla Seghers. Nella seconda parte del libro dalle leggende si passa alle storie, anch’esse risonanti di molteplici echi. L’apparente semplicità del quotidiano addita qualcos’altro, un indecifrabile altrove. Lo stile distaccato non è sinonimo di freddezza emotiva. La pagina scritta riverbera sogni e desideri, che si riflettono sull’ambiente e sulle suppellettili, oltre che sulle persone. Ne risulta un quadro colmo d’incanto e mistero, che ammanta anche le storie dall’impostazione più tradizionale. L’ombra del nazismo increspa alcuni racconti; un ragazzo necessita di un posto dove stare in una Parigi occupata mentre un altro, avvolto dall’aura della mediocrità, trova un pericoloso riscatto nell’indossare una divisa. Tre geologi al seguito delle truppe italiane in Etiopia inseguono un sogno dorato, salvo essere ingannati e condotti verso l’abisso da una giovane guida locale. La vertigine li coglie sull’orlo del nulla, e non si lascia dominare. La caligine che infesta il paesaggio ha un colore grigio viola apparentato con la morte. La parola letteraria si fa esorcismo, fiaba, mitopoiesi, ricreazione continua del mondo e delle sue infinite mutazioni.