Ha un colore unico la voce di Anna Nerkagi, una qualità immediatamente individuabile; proviene da un remoto passato, ma al contempo appare perfettamente riconoscibile in quanto è radicata nei fondamenti della vita umana. Muschio bianco è il secondo libro di questa autrice che Utopia offre al pubblico italiano. Il popolo nenec, al quale la scrittrice appartiene, vive nella penisola Jamal (“fine della terra” nella loro lingua) all’estremo nord del mondo, seguendo ancestrali ritualità, anacronistiche per il mondo moderno. Nell’universo dei nenec il fuoco è il fondamento della vita, voce rassicurante nel paesaggio solitario, nelle immense distese della tundra gelata, mentre le nuvole veleggianti nel cielo simboleggiano il nomadismo dell’uomo, la libertà minacciata dal progresso. Ma c’è anche una fiamma che non scalda, quando l’anima dell’uomo è infestato dal demonio. La dicotomia fra bene e male si esplicita nell’immagine del muschio bianco, che risplende nella notte e appartiene al sole, e del muschio nero, gelido e triste.
Siamo al cospetto di un mondo primordiale, attraversato da misteriose presenze. I defunti non smettono di vivere, ma seguitano ad aleggiare nell’aria. Lo sconvolgimento rappresentato dall’avvento del potere sovietico balena nella narrazione: “tutto scomparve come se non fosse mai esistito”. Se le renne sono l’anima della vita dei nenec, subirne l’esproprio significa accusare un colpo dal quale non è facile riprendersi. Le fondamenta della loro cultura traballano pericolosamente: “L’uomo si sente diviso tra l’esigenza di vivere nella sua terra e un altrove che lo attrae”. Da ciò una perenne inquietudine, un senso di colpa inestirpabile. Il peccato si è introdotto nel giardino edenico. Il denaro, bramato da chi ha abbandonato la tundra per trasferirsi in città, è una maledizione. Il conflitto generazionale è insanabile. Chi non ha mai vissuto seguendo le tradizioni non può comprendere il valore di una renna, compagna nella sorte e nella sofferenza. Il patto di mutua assistenza fra i vecchi e i giovani è definitivamente infranto.
Il lamento della strolaga punteggia la narrazione come un basso continuo. Da tempo la parola in grado di dire la verità, sfigurata “dal farfugliare di molte generazioni”, è stata dimenticata dagli uomini. Il verbo, spoglio della propria pregnanza, si corrode quasi fosse afflitto da una malattia. I nenec lottano per tramandare quanto resta della loro cultura, combattono contro l’oblio che li minaccia; ma la continuità è sempre più logora come un čum vetusto, sorretto da fragili pali e rivestito di pelli consunte. L’abitazione tipica dei popoli nomadi, il focolare domestico, mostra tutte le sue crepe. Così il giovane Alëška, rifiutandosi di aderire a un matrimonio senza amore, necessario per perpetuare la propria stirpe, mina alle fondamenta antiche ritualità. Nella stessa maniera il vecchio Petko, fiaccato dalla perdita della moglie, si strappa la cintura rifiutando ogni ulteriore coinvolgimento nella vita; un gesto forte, un rinnegare il proprio nome e il proprio sangue. Se “la vita è una lotta intima e misteriosa con se stessi e per se stessi”, la maniera giusta per affrontarla è stando in sintonia con il proprio cuore, acquisendo quella saggezza che è l’unico valore della nostra esistenza. Solo allora l’uomo, in prossimità della morte, sarà in grado di liberarsi dalle cose e dai desideri, congedandosi dal mondo puro come quando vi è entrato.