Ghiaccio (Ice, 1967) è l’ultimo romanzo di Anna Kavan, al secolo Helen Ferguson, ora riedito dopo quasi mezzo secolo da 451, nella nuova traduzione di Giuseppe Costigliola. La sua uscita, a pochi mesi dalla scomparsa della scrittrice, le consegnò a 67 anni un successo che non aveva mai conosciuto prima, nel corso di una vita che, anche a seguito dalla dipendenza di eroina (“abbastanza da uccidere una strada intera”), aveva attraversato periodi di ricovero, rehab e trattamenti psichiatrici di ogni tipo. Prima che il successo del libro fosse destinato a trasformarsi in culto, con tanto di 50th Anniversary Edition tra i classici Penguin, tra i suoi primi ammiratori, senza se e senza ma, si ritrovarono Doris Lessing, Anaïs Nis, Brian Aldiss (che convinse, pare, il suo editore a pubblicare Ice), James Ballard.
Proprio quest’ultimo può sembrare, dalle prime pagine di Ghiaccio, in qualche modo implicato con il capolavoro della Kavan, un romanzo post-apocalittico che descrive gli ultimi mesi della civilizzazione umana su un pianeta attanagliato dalla morsa di una rapida glaciazione e sconvolto dalle guerre di accaparramento delle ultime risorse. Uno scenario che, negli anni della new wave inglese, non poteva non evocare la tetralogia ballardiana degli elementi, se non proprio il ribaltamento della crisi climatica, a seguito dello scioglimento delle calotte polari, immaginata in Drowned World. Come in Ballard, del resto, le ossessioni malate e la scena mentale del protagonista, in cui il lettore è precipitato dalla prima pagina, si proiettano sulle rovine della devastazione fisica e morale, senza mai coincidere completamente con la realtà.
Ma Ghiaccio è davvero molto più di questo e probabilmente va oltre la capacità narrativa maturata da Ballard in quel periodo. E non solo perché Kavan sa tradurre le pulsioni del mondo coscienziale in altrettanti sfasamenti spaziali e temporali che alla fine definiscono il racconto in un continuo anticlimax, con tecnica esperta, fredda, matura, in parte forse derivata dal Nouveau Roman. Kavan ci fornisce nuovi, terribili occhiali. Il protagonista maschile, attraverso cui viviamo questa fine del mondo che non lascia adito a nessuna illusione di nuovo inizio, è a sua volta il ritratto senza sconti, delirante e perverso, ostinato e impotente, dell’uomo e della civiltà in rovina che rappresenta. Sospinto da fantasie di possesso e da pulsioni sadiche nei confronti dell’unico personaggio femminile (come gli altri mai nominata e indicata semplicemente come “la ragazza”), che lo trascinano da un angolo all’altro del pianeta, lo vediamo in competizione con altri maschi. Risentito con la ragazza ma incapace di un soddisfacimento violento, a differenza della sua nemesi – il Governatore – incarnazione del potere patriarcale, senza ansie e rimorsi, che il protagonista teme e ammira in egual misura, subendone la fascinazione virile.
Se la capacità di Kavan di dare vita a un personaggio maschile così refrattario e complesso, come filtro dell’intero racconto, ha dello straordinario, l’artificio narrativo più originale del romanzo è però forse un altro. La versione della scrittrice è infatti sotto gli occhi dall’inizio, fornita in parte in chiave autobiografica, attraverso la figura della “ragazza”: una figura di vittima rassegnata, che in ottica freudiana ha interiorizzato l’eredità del trauma dalla prima età, estranea ora a ogni prospettiva di emancipazione. Infantile e infantilizzata da chi con la scusa di proteggerla non ha smesso di perseguitarla, è il fantasma che rivela la tossicità del desiderio maschile. Gli uomini sono tutti uguali per la ragazza che li accomuna nell’odio, pur distinguendoli per la diversa intensità della minaccia.