Introduzione ai femminismi a cura di Anna Curcio è un libro tanto agile e breve quanto indispensabile. Rivolto in special modo alle giovani donne che in questi anni hanno occupato la scena transnazionale, offre un quadro delle teorie e pratiche che hanno preceduto la temperie attuale; ma non è meno importante per le generazioni del femminismo ‘storico’: sollecitandole a non barricarsi in posizioni identitarie e preconcette.
Nella prefazione Anna Curcio (la curatrice) scrive: “«la conoscenza è legata alla lotta» e le questioni che in forma diversa i saggi riprendono si interrogano proprio a partire da una dimensione militante e di lotta. Perché le autrici, come chi ha partecipato al corso [Mediateca Gateway Bologna], sono a vario titolo parte del dibattito femminista in Italia.”
Indicazione molto importante per la lettura dei saggi che, nell’insieme, non vogliono tratteggiare una panoramica anodina e piattamente storica di tutte le esperienze che hanno attraversato il femminismo della seconda metà del ‘900, ma offrire un ventaglio di esperienze – politiche e intellettuali – capaci di fornire strumenti utili a comprendere e modificare il presente.
Si tratta di punti di vista contraddittori a volte conflagranti ma che hanno in comune la tensione al cambiamento radicale; un pensiero, quindi, vivo e creativo che – rigoroso genealogicamente – non ha timore di verificare la propria tenuta sull’oggi: cercando di colmare il gap di conoscenze fra le nuove e le vecchie generazioni che sono state protagoniste dei femminismi della cosiddetta seconda ondata nella seconda metà del Novecento.
Un libro molto utile perché, pur non addentrandosi nel dettaglio delle eterne polemiche ad esse cerca di rispondere fornendo strumenti politico teorici. Tutto ciò senza sottrarsi “al problema drammatico che in Italia ha interessato il rapporto tra le diverse generazioni femministe, ovvero un problema fatto di scomuniche, giudizi negativi sempre assolutamente preventivi, esonero dall’esposizione alle relazioni, aspettative di ripetizione e somiglianza, incapacità se non rifiuto di prestarsi, e dunque di trovare nuove e diverse posizioni, per il potenziamento delle lotte femministe emergenti” come scrive nel suo saggio Federica Giardini dedicato alla componente forse maggioritaria in Italia dagli anni ’80: il femminismo e il pensiero della differenza sessuale. Sulla polemica fra posizioni “identitarie” e componenti queer è da segnalare anche il saggio di Federico Zappino che ricostruisce la genealogia della teoria queer all’interno del femminismo in autrici come Lauretis, Butler, Sedgwick e Wittig, le quali affermano che una critica efficace al patriarcato non può essere disgiunta dalla critica dell’eterosessualità (normativa) su cui si esso fonda.
Oltre Marx e oltre il femminismo marxista della rottura
Silvia Federici è una delle femministe marxiste della rottura (saggio di Anna Curcio) che, nei primi anni ’70, a New York, fece proprie le analisi della padovana Mariarosa Dalla Costa e del gruppo Lotta femminista, ovvero quell’area, militante e teorica, che scelse di porre il lavoro domestico e riproduttivo al centro delle proprie indagini e pratiche. Nacque così il primo embrione di un movimento transnazionale che, per quanto riguarda gli Stati Uniti, andò a intrecciarsi fin da subito con le questioni del femminismo delle donne Nere.
“Non condividevo la tendenza delle femministe radicali a far risalire la discriminazione sessuale e il potere patriarcale a strutture culturali trans storiche che si presumevano indipendenti dai rapporti di produzione e di classe. Per contro, le femministe socialiste riconoscevano che non si può scindere la storia delle donne dalla storia dei vari sistemi di sfruttamento e nelle loro teorie analizzavano la discriminazione sessuale a partire dal lavoro che le donne svolgono nella società capitalistica. Ma il limite della loro posizione era di non riconoscere la sfera della riproduzione come fonte di sfruttamento e creazione di plusvalore e quindi di attribuire l’origine della differenza di potere tra donne e uomini all’esclusione delle donne dallo sviluppo capitalistico – un assunto che ancora una volta ci obbligava a ricorrere a schemi culturali per dar conto della sopravvivenza del sessismo nell’universo delle relazioni capitalistiche”. In queste righe, tratte da Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria (Mimesis 2020) Federici illustra in modo molto chiaro le ragioni politiche che guidarono l’esperienza conosciuta in Italia con la parola d’ordine “salario al lavoro domestico”; si trattò di uno straordinario laboratorio che teoricamente si misurava direttamente con Marx senza complessi. Frutto di questo sforzo collettivo è un imponente corpus di riflessioni che, grazie alla ripubblicazione di testi a lungo introvabili, sta suscitando un rinnovato interesse: rimettendo in circolo analisi fra le più interessanti e vivamente attuali. A patto che, come sostiene Curcio, chi eredita questo lascito riesca ad andare oltre (proprio come quel gruppo di compagne a suo tempo erano andate oltre Marx) allo scopo di interpretare, ma soprattutto di intervenire in un contesto sociale e produttivo completamente cambiato in cui le caratteristiche che erano proprie del lavoro di riproduzione hanno invaso la totalità della produzione.
Curcio si interroga anche su alcune parole d’ordine attuali e sulla loro capacità di tradursi in lotte efficaci, come ad esempio lo sciopero riproduttivo e la richiesta di un reddito incondizionato. In una intervista a radio “Onda d’urto” racconta che qualche anno fa aveva cercato di organizzare uno sciopero dei precari dell’Università per tutto il lavoro gratuito svolto; significativamente uno dei precari aveva risposto dicendo “questo non lo considero un lavoro ma una passione”. La stessa risposta che si pretendeva dalle donne per il lavoro gratuito di riproduzione della forza lavoro: lo faccio per amore…
Interessantissimo anche il saggio di Sara Garbagnoli sul femminismo materialista francese che partendo, come avevano fatto le italiane e le statunitensi, dai testi di Marx giunge ad esiti molto diversi nella interpretazione del rapporto fra patriarcato e capitalismo, ed elabora una epistemologia radicalmente non naturale e anti-essenzialista, fondando un “sapere che nulla avviene che non sia storia”. Il saggio è davvero stimolante anche perché queste autrici (Wittig, Delpyi, Guillaumin, …) non sono molto note, oscurate forse dall’egemonia del pensiero differenzialista che, sia negli Stati Uniti che in Italia, attraverso massicce dosi di traduzioni, ha spinto a identificare con esso tutto il femminismo francese (Kristeva, Irigaray, Cixous).
Il femminismo nero
Non poteva mancare un capitolo sul femminismo Nero nato negli Stati Uniti oggi necessario in una Italia compiutamente multietnica.
Spiace che a differenza delle altre sezioni questo capitolo che riassume in modo esemplare le caratteristiche proprie del femminismo Nero (il concetto di intersezionalità, la casa vista come luogo di resistenza comune piuttosto che come luogo dell’oppressione, … ) possa risultare ‘estraneo’ al contesto italiano in cui, evidentemente, manca ancora un’effettiva interazione interrazziale: tanto nelle lotte che nelle riflessioni politiche, a causa forse delle stratificazioni delle condizioni lavorative e giuridiche. Proprio su questo salta ogni discorso inclusivo e identitario pacificato perché, come scrive l’autrice Maria Moïse, la prospettiva di una alleanza “implica una comprensione di come le condizioni di subalternità siano messe in conflitto tra loro”. In altre parole non è data alleanza fra la padrona e la sua serva solo perché sono ambedue donne.
A proposito della incapacità di prendere in considerazione il Nero anche nel discorso simbolico e culturale, riporto un piccolo episodio che mi ha molto colpito.
La Tammurriata nera (qui il testo) è una canzone scritta nel 1944, a Napoli, un anno dopo lo sbarco degli alleati. Ha un ritmo travolgente è per questo è stata messa nel repertorio del coro multietnico Canto Sconfinato, di cui faccio parte, scegliendo di dare un’interpretazione benigna del testo che è in parte ambiguo. Fino a quando un corista di origine nigeriana ha detto: io questa canzone non la canto perché è razzista. Punto. Grande scompiglio, grandi discussioni con tutte le donne che si interrogavano per la parte del testo che ci riguarda direttamente e, bisogna dirlo, grande stupore per le parole del giovane corista che era deciso: la canzone è razzista perché perpetua lo stereotipo della presunta iper virilità dell’uomo nero a cui basta un’occhiata per far rimanere incinta una donna (A ‘e vvote basta sulo na guardata,/ E ‘a femmena è restata, / Sott”a botta, ‘mpressiunata…).
La studiosa Vincenza Perilli ha indagato con grande finezza la Tammurriata nera come una canzone rivelatrice della stigmatizzazione di una sessualità interrazziale considerata “mostruosa” soprattutto se generativa. Eppure, significativamente, Perilli nella sua bella ricerca storico antropologica orientata dal punto di vista delle donne non vede quel che il nostro giovane corista ha subito individuato come un punto fondamentale della ‘costruzione’ delle razze, che si interseca con quella del genere perché come scrive Marie Moïse nel saggio sul femminismo Nero: “Se durante la schiavitù, lo schiavo era considerato incapace di raggiungere la piena dignità di uomo e padre, in seguito all’abolizione, una nuova costruzione ideologica marchia il corpo dell’ex schiavo: il mito del Nero stupratore. La rappresentazione dominante del nero viene a coincidere con una sessualità ipertrofica e bestiale, orientata in particolare allo stupro di donne bianche” che a loro volta vengono rappresentate come deboli e vulnerabili”.
Un’unica critica al libro. La cura editoriale perlomeno per quanto riguarda la versione epub è molto approssimativa, ad esempio tutti i titoli dei libri citati sono in tondo come il testo e quindi non facilmente differenziabili dal resto.