Ann Leckie / Shakespeare fra gli dèi

Ann Leckie, La torre del corvo, tr. Francesca Mastruzzo, Mondadori, pp. 432, euro 18,00 stampa, euro 9,99 epub

Ann Leckie, nota per aver modernizzato la Space opera fantascientifica con l’universo e la serie di Ancillary, con questo ultimo romanzo ha deciso di voltare pagina e di tentare un esperimento narrativo insolito e completamente diverso. A prima vista The Raven Tower assomiglia infatti alla versione in chiave fantasy medievaleggiante di uno dei principali classici del canone occidentale: l’Amleto. Ne più, ne meno.

In una terra di mezzo disegnata sul modello in miniatura di Westernos, anche qui infatti abbiamo uno zio usurpatore del trono (Hibal) e un cast di personaggi caratterialmente aggiornati ma funzionalmente sovrapponibili a quelli del dramma shakespeariano: il giovane erede defraudato e impetuoso (Mawat), l’amico gender fluid a lui fedele fino alla morte (Eolo), l’amata che diventa una mina dopo l’uccisione del padre, la figura materna costretta a compiacere le mire politiche dello zio e persino una coppia di ceffi, cresciuti a corte con Mawat/Amleto e ora spie al servizio di Hibal. Niente fantasmi e teschi, è vero, ma in compenso suo fratello, il reggente legittimo, è scomparso misteriosamente sottraendosi al sacrificio rituale in onore della divinità locale, il Corvo.

Il mondo di The Raven Tower, infatti, è popolato da numi e deità di ogni tipo e livello, dall’astutissimo Corvo agli dèi delle piccolissime cose, specializzati in nicchie opportunistiche ma pur sempre soprannaturali tipo “il dio che ti aiuta a ritrovare gli ami da pesca”. Tutti, grandi e piccoli, si fanno la guerra o si alleano, prosperano o scompaiono, perennemente affamati di preghiere e di offerte, in lotta per sopravvivere nei cuori poco teneri e nella devozione interessata degli umani.

Tra questi Forza e Pazienza, divinità apparentemente minore e un po’ pigra che non sembra prendere sul serio la competizione, non impara le lingue per comunicare con i mortali e risiede da millenni in un masso roccioso invece di incarnarsi in qualche animale come fa la maggior parte dei suoi colleghi e, in particolare l’amica Miriade, che lo sprona a sciamare e ad aprirsi di più al mondo. Per lui il tempo non è mai stato un problema, e non importa se ci mette qualche millennio prima di scoprire l’empatia, e solo quando muore la sua unica sacerdotessa. Più che un dio, Forza e Pazienza ricorda quello che la filosofia speculativa definirebbe un iper-oggetto: come il cambiamento climatico o il sommovimento delle placche tettoniche, un evento che eccede in tutto e per tutto la scala umana del tempo e dello spazio, con cui però il nostro eroe dovrà imparare a convivere e a intersecarsi per non soccombere. Anche e soprattutto perché è l’unico narratore della storia, che racconta in seconda persona, rivolgendosi direttamente a Eolo, quando si tratta dei foschi intrighi della Comédie humaine, in prima persona quando condivide con il lettore le sue osservazioni di deità solitaria e riflessiva. Il colpo di genio narrativo di Leckie è tutto qui: imbastire un romanzo esclusivamente dal punto di vista dell’immanenza, lasciando sia la saggezza stessa dell’inorganico a riscrivere la storia più famosa dell’età moderna, il tutto dietro alle mentite spoglie e agli stereotipi del fantasy. L’autrice, allieva di Octavia Butler, dà vita a un meta-romanzo che si specchia nel racconto fantastico senza per questo, necessariamente, sposarne ogni fisima. Prova ne sia anche la lunghezza contenuta del volume, rispetto agli standard del genere, e il suo carattere di opera unica, senza le premesse di un sequel o di un nuovo ciclo. Un esperimento complessivamente riuscito, che dice bene la maturità narrativa e la padronanza assoluta di questa scrittrice.