Ann Leckie, nota per aver modernizzato la Space opera fantascientifica con l’universo e la serie di Ancillary, con questo ultimo romanzo ha deciso di voltare pagina e di tentare un esperimento narrativo insolito e completamente diverso. A prima vista The Raven Tower assomiglia infatti alla versione in chiave fantasy medievaleggiante di uno dei principali classici del canone occidentale: l’Amleto. Ne più, ne meno.
In una terra di mezzo disegnata sul modello in miniatura di Westernos, anche qui infatti abbiamo uno zio usurpatore del trono (Hibal) e un cast di personaggi caratterialmente aggiornati ma funzionalmente sovrapponibili a quelli del dramma shakespeariano: il giovane erede defraudato e impetuoso (Mawat), l’amico gender fluid a lui fedele fino alla morte (Eolo), l’amata che diventa una mina dopo l’uccisione del padre, la figura materna costretta a compiacere le mire politiche dello zio e persino una coppia di ceffi, cresciuti a corte con Mawat/Amleto e ora spie al servizio di Hibal. Niente fantasmi e teschi, è vero, ma in compenso suo fratello, il reggente legittimo, è scomparso misteriosamente sottraendosi al sacrificio rituale in onore della divinità locale, il Corvo.
Il mondo di The Raven Tower, infatti, è popolato da numi e deità di ogni tipo e livello, dall’astutissimo Corvo agli dèi delle piccolissime cose, specializzati in nicchie opportunistiche ma pur sempre soprannaturali tipo “il dio che ti aiuta a ritrovare gli ami da pesca”. Tutti, grandi e piccoli, si fanno la guerra o si alleano, prosperano o scompaiono, perennemente affamati di preghiere e di offerte, in lotta per sopravvivere nei cuori poco teneri e nella devozione interessata degli umani.
Tra questi Forza e Pazienza, divinità apparentemente minore e un po’ pigra che non sembra prendere sul serio la competizione, non impara le lingue per comunicare con i mortali e risiede da millenni in un masso roccioso invece di incarnarsi in qualche animale come fa la maggior parte dei suoi colleghi e, in particolare l’amica Miriade, che lo sprona a sciamare e ad aprirsi di più al mondo. Per lui il tempo non è mai stato un problema, e non importa se ci mette qualche millennio prima di scoprire l’empatia, e solo quando muore la sua unica sacerdotessa. Più che un dio, Forza e Pazienza ricorda quello che la filosofia speculativa definirebbe un iper-oggetto: come il cambiamento climatico o il sommovimento delle placche tettoniche, un evento che eccede in tutto e per tutto la scala umana del tempo e dello spazio, con cui però il nostro eroe dovrà imparare a convivere e a intersecarsi per non soccombere. Anche e soprattutto perché è l’unico narratore della storia, che racconta in seconda persona, rivolgendosi direttamente a Eolo, quando si tratta dei foschi intrighi della Comédie humaine, in prima persona quando condivide con il lettore le sue osservazioni di deità solitaria e riflessiva. Il colpo di genio narrativo di Leckie è tutto qui: imbastire un romanzo esclusivamente dal punto di vista dell’immanenza, lasciando sia la saggezza stessa dell’inorganico a riscrivere la storia più famosa dell’età moderna, il tutto dietro alle mentite spoglie e agli stereotipi del fantasy. L’autrice, allieva di Octavia Butler, dà vita a un meta-romanzo che si specchia nel racconto fantastico senza per questo, necessariamente, sposarne ogni fisima. Prova ne sia anche la lunghezza contenuta del volume, rispetto agli standard del genere, e il suo carattere di opera unica, senza le premesse di un sequel o di un nuovo ciclo. Un esperimento complessivamente riuscito, che dice bene la maturità narrativa e la padronanza assoluta di questa scrittrice.